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Ecco gli Unicorni, Parte II: Spotify opta per il direct listing

Pubblicato 21.03.2018, 17:58
Aggiornato 02.09.2020, 08:05

Dopo essere stato relativamente calmo e meno stellare rispetto al 2017 per quanto riguarda le offerte pubbliche iniziali (IPO), il 2018 sembra diventare più promettente e potenzialmente più eccitante, con la carica di un branco di “Unicorni”: Zscaler, Dropbox e Spotify. Vengono definite Unicorni le start-up con una quotazione da un miliardo di dollari o più.

Zscaler (NASDAQ:ZS), fornitore di soluzioni per la sicurezza cibernetica e primo Unicorno a correre, è stato quotato in borsa venerdì scorso. Era quotato a 16 dollari ma ha chiuso il primo giorno di scambi con un’impennata del 106% a 33 dollari, sebbene alla chiusura di ieri il titolo fosse scambiato a 30,38 dollari. La sua capitalizzazione di mercato è cominciata a 2,5 miliardi di dollari; al momento è schizzata a 3,27 miliardi di dollari.

L’IPO di Dropbox (NASDAQ:DBX) è prevista per questo venerdì 23 marzo. Ieri abbiamo analizzato i fondamentali di Dropbox, alla vigilia della sua IPO già sottoscritta al di sopra dell’effettiva disponibilità.

Oggi prenderemo in considerazione la più insolita decisione di Spotify (NYSE:SPOT) per il debutto in borsa, attraverso un direct listing in programma martedì 3 aprile. Come spiegheremo di seguito, questa strada è potenzialmente più volatile e molto più rischiosa per gli investitori privati. Anche se non vi preoccupa il rischio maggiore, la domanda fondamentale non può essere ignorata: investireste su Spotify quando sarà quotata in borsa?

Spotify: una piattaforma in crescita ma nessun vero profitto … finora

Per i pochi che non ne abbiano mai sentito parlare, Spotify è un servizio di musica in streaming e anche piuttosto buono. Offre musica in streaming gratuita con funzionalità limitate e annunci pubblicitari minimi o un servizio premium al costo di 9,99 dollari, che sale a 14,99 dollari per un pacchetto famiglia fino a 5 utenti (cioè 3 dollari a persona anziché i 9,99 dollari dell’utente singolo).

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Spotify è una compagnia svedese. Si potrebbe dire che è la seconda compagnia svedese più famosa dopo IKEA. È attiva dal 2008 quindi non si può esattamente definire una start-up. Le valutazioni private della compagnia arrivano a 20 miliardi di dollari.

Esaminando la documentazione F-1 pre-IPO di Spotify emerge il vero funzionamento della compagnia. E non è affatto buono.

Partendo dagli aspetti positivi, Spotify ha 71 milioni di abbonati paganti, quasi il doppio di quelli di Apple Music (NASDAQ:AAPL), che all’ultimo conteggio ammontavano a 36 milioni. Wall Street ama la crescita e Spotify va egregiamente su questo fronte, con una crescita del 46% di utenti paganti nello scorso anno. Gli abbandoni sono scesi al 5,5%, rispetto al 6,6% dello scorso anno. Gli utili annui sono quasi 5 miliardi di dollari, con un rimbalzo di quasi il 40% rispetto allo scorso anno.

Sfortunatamente, ci sono anche degli aspetti negativi. Sebbene Spotify sia chiaramente forte sul fronte utili, non lo è ancora abbastanza da essere redditizia. Ha perso 1,5 miliardi di dollari l’anno scorso.

Gli utili medi per utente pagante sono crollati del 14% lo scorso anno, dal momento che sempre più abbonati sono passati al più conveniente pacchetto famiglia.

Spotify: Losses from Royalty Costs 2013-2017

Forse ancora più disastroso il fatto che il costo degli utili sotto forma di diritti musicali è altissimo e continua a salire. Lo scorso anno, questo elemento del bilancio (che comprende i costi dei diritti e della distribuzione) ammontava ad un notevole 79% degli utili totali di Spotify, comportando margini lordi del 21%, al netto di tutte le altre spese.

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Detto semplicemente, Spotify è una compagnia in crescita che non è ancora riuscita a fare soldi. E questo potrebbe essere accettabile, ma ci sono già enormi timori circa la sua capacità di espandere gli utili data l’abitudine degli utenti di passare al pacchetto famiglia più vantaggioso di Spotify. Ovviamente, ciò potrebbe diventare un ostacolo sulla strada della redditività futura.

Inoltre, l’ambiente concorrenziale di Spotify è particolarmente difficile: Apple, Amazon (NASDAQ:AMZN) e Alphabet (NASDAQ:GOOGL) sono i principali rivali. Apple possiede già un suo servizio streaming oltre ad un enorme ecosistema molto fedele su cui contare. Allo stesso modo, Amazon possiede Amazon Music nonché circa 90 milioni di membri Prime che, con l’iscrizione, ottengono gratuitamente il servizio streaming Amazon Music. E non è da meno Alphabet, che offre un servizio streaming simile con Google Music.

Tutti e tre i rivali con mega-capitalizzazioni sono abbastanza grossi e ricchi da supportare uno sperpero di denaro in un’operazione di musica in streaming. Dopo tutto, cosa sono 1,5 miliardi di dollari l’anno nel grande schema delle cose per Apple, Amazon o Google? Non molto.

D’altra parte, per Spotify sono tutto. Spotify potrebbe ridurre il costo delle tariffe dei diritti seguendo l’esempio di Netflix (NASDAQ:NFLX) e creando un’etichetta musicale tutta sua, ma si tratta di una strada completamente diversa, una che non ha necessariamente considerato o che non è pronta ad affrontare.

Ci sono due enormi campanelli di allarme che circondano la struttura tecnica dell’IPO di Spotify. Per cominciare, la loro offerta comprende una divisione tra azioni con e senza diritto di voto, qualcosa da cui avevamo messo in guardia poco prima dell’IPO di Snap (NYSE:SNAP) a inizio marzo 2017. E resta un argomento preoccupante anche oggi, per entrambe le compagnie. Emettere azioni con poco o nessun diritto di voto è un chiaro segnale che fondatori e membri interni vogliono tenersi stretto il potere decisionale, senza alcuna interferenza del pubblico.

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Inoltre, la decisione di Spotify di fare una cosiddetta “IPO diretta”, in cui non sono coinvolte banche di investimento e le azioni vengono vendute direttamente dagli attuali azionisti e possessori al pubblico, è davvero insolita. Tanto per cominciare, crea la sensazione che gli interni stiano cercando di incassare.

E poi, quelli che possiedono già le azioni, avendole ottenute in privato, hanno molte più informazioni rispetto a quelle disponibili al momento al pubblico. Quando il venditore ha il vantaggio di una conoscenza interna, vale il vecchio detto: caveat emptor, stia in guardia il compratore! Chiunque stia pensando di comprare azioni quando il titolo sarà lanciato in borsa dovrebbe considerare anche il peggior caso possibile.

Infine, la vendita diretta dovrebbe creare un’estrema volatilità nei primi giorni immediatamente seguenti al debutto in borsa. Di solito, le banche di investimento garantiscono stabilità assicurando un titolo. Spotify farà una IPO senza una coperta di Linus che lo protegga dalla volatilità. Non possiamo essere certi di come sarà esattamente, ma Snap aveva dei garanti e sarebbe una minimizzazione dire che il titolo era volatile dopo la IPO.

Conclusione: Di norma, non sono un fan degli investimenti nelle IPO. Potrei esserlo, ma solo in circostanze straordinarie e quando le stelle sono propizie.

I vari campanelli di allarme di Spotify mi convincono a restarne fuori. Vedrò come si muove il prezzo e aspetterò qualche report trimestrale per capire dove sono dirette crescita e redditività. Se le stelle saranno propizie, forse prenderò in considerazione l’idea di impegnarmi.

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