Lunedì 5 Novembre
La settimana passata si è chiusa con il mercato sballottato da forti correnti incrociate. Il rapporto tra Stati Uniti e Cina continua ad essere fonte di volatilità, in grado di generare un forte rumore di fondo ma non un trend risolutivo. Sul fronte macroeconomico la solidità del rapporto sull’occupazione americano va a toccare il nervo scoperto dell’iper-sensibilità alla proattività normalizzatrice della Fed più che rassicurare, come sarebbe logico, sulla tenuta della crescita US. Quello che resta, a valle della price-action di venerdì, è la decisione con cui il vigoroso rimbalzo degli ultimi giorni sembra essere stato respinto da livelli di resistenza importanti.
La price-action sui mercati azionari nelle ultime 36 ore ha dato qualche segnale rassicurante. Dopo una discesa abbastanza vertiginosa che ha sottratto oltre il 10% alla capitalizzazione dei principali indici globali (S&P 500 -11.6%, MSCI World -11.2% nel momento di massimo ribasso lunedì sera), il mercato ha fornito qualche indicazione positiva nella funzione di reazione al flusso di notizie micro e macro. A partire dalla gamba ribassista di lunedì pomeriggio (dichiarazioni minacciose di Trump alla Cina, Digital Tax UK), negata almeno in parte nelle ore successive con decisione, la price-action è diventata più costruttiva specialmente se consideriamo che i dati economici e le trimestrali nelle ultime 24 ore avrebbero potuto fornire carburante per ulteriore pessimismo:
US-China. L’entropico flusso di notizie riguardante la riapertura di un negoziato tra Washington e Pechino continua ad essere un fattore di volatilità ma non di trend sui mercati. L’indiscrezione (Bloomberg), circolata venerdì mattina, che il governo americano stava preparando una potenziale bozza di accordo in grado di costituire una base per l’incontro tra Trump e Xi in occasione del G20 di Buenos Aires (fine novembre), ha indubbiamente mosso il mercato, chiaramente in senso positivo, nella prima parte della sessione di venerdì. Indici azionari in salita, trainati dal mercato cinese, curve dei rendimenti più alte, dollaro più debole con la discesa dai massimi del USD/CNY a fare da guida. Successivamente però una serie di headline dal tono sensibilmente più cauto hanno calmierato l’entusiasmo (CNBC: a senior administration official tells that the report president Trump is ready to cut a trade deal with China is not true. “There is a long way to go” on negotiations, the official said). Infine una conferenza stampa nel pomeriggio statunitense è sembrata ridare fiato alle interpretazioni più ottimistiche. Il rumore di fondo resta in effetti molto elevato e, anche senza voler essere troppo dietrologi o complottisti, l’impressione è quella di un costante tentativo della Cassa Bianca di voler dare uno ‘spin’ positivo alle prospettive di un accordo per sostenere il mercato con le elezioni di metà mandato alle porte.
US Payrolls. Il rapporto sull’occupazione ha mostrato forza a 360 gradi: la creazione di posti di lavoro è stata superiore alle attese in maniera non trascurabile (250k vs 200k exp.); i salari medi orari sono cresciuti di 3.1% y/y (secondo le attese, comunque mostrando un tasso di crescita che non si vedeva da anni); la crescita di impiego mostrata dall’Household Survey (quello che viene utilizzato per calcolare partecipazione e disoccupazione) è stata di ben 600k (1 mio negli ultimi due mesi); la forza lavoro è cresciuta di 700k, mostrando che il mercato del lavoro, con salari più elevati e migliori prospettive occupazionali, è in grado di tornare ad attirare lavoratori rimasti precedentemente ai margini dell’attività economica (il tasso di partecipazione è salito coerentemente da 62.7% a 62.9% con il tasso di disoccupazione invariato al 3.7%); il reddito da lavoro nominale complessivo dell’economia (numero di lavoratori * salario orario medio * ore lavorate) sta ora crescendo y/y a un tasso superiore al 5% per la prima volta dal giugno 2007 (cit. Morgan Stanley (NYSE:MS)). Un dato che è stato fin troppo robusto per la capacità attuale di sopportazione del mercato di una Fed proattiva nel normalizzare i tassi e che ha contribuito, insieme al suddetto smorzamento del facile entusiasmo su un potenziale accordo con Pechino, alla brusca inversione di tono a Wall Street nel pomeriggio di venerdì.
Qualche incertezza sulla genuinità di sviluppi positive sul fronte US-Cina, e la forza del rapporto sull’occupazione, destinato a tenere vivi i timori di un ciclo di normalizzazione monetaria da parte della Fed non così delicato come alcuni desidererebbero, hanno appunto innescato un’inversione di tendenza sui mercati dopo 36 ore (giovedì e metà della sessione di venerdì) di brillante recupero. A livello tecnico un area che avevamo già indicato come potenzialmente importante (2765-2775 per l’S&P 500, confluenza della media mobile a 200 giorni e del ritracciamento del 50% del movimento ribassista di ottobre) ha fornito una resistenza grintosa e, almeno per il momento, poco propensa a lasciarsi violare. Con una simile price-action e in mancanza del superamento di queste resistenze, il rischio evidente è che i ribassisti tornino in controllo dopo un fisiologico short squeeze, proprio quando in tanti si aspettano l’arrivo catartico del ‘rally di fine anno’.
Fonte: HSBC – Brent Donnelly
La curva dei tassi US ha intanto ripreso quota. Va segnalato il fatto che nonostante il mercato azionario sia significativamente più basso rispetto ai massimi (assoluti o di periodo a seconda degli indici) di poco più di un mese fa, il rendimento a 10Y è risalito sopra quota 3.20% (venerdì +8bp a 3.21%) mentre i rialzi impliciti per i prossimi trimestri sono tornati ad irrobustirsi: quasi certo il rialzo a dicembre (80%) e poco meno di 3 rialzi complessivi (70bp) per fine 2019. In buona sostanza si conferma la maggiore difficoltà per la componente obbligazionaria di un portafoglio di fornire un contributo positivo nei momenti di difficoltà azionaria.
Trimestrali. Per quanto riguarda Wall Street il più è ormai fatto: 83% dell’S&P 500 è alle spalle, nella settimana entrante riporterà solo l’8%. In media la crescita y/y di utili per azione (+24.9%) e ricavi (+8.5%) è stata molto buona e spesso migliore di attese non banali ma chi si aspettava che trimestrali robuste potessero rappresentare la medicina di cui il mercato aveva bisogno è rimasto deluso. In questa tornata di risultati la preoccupazione nei confronti dei risultati futuri è diventata un catalizzatore più significativo e, con una ‘guidance’ spesso più cauta per il prossimo trimestre e timori più generali per un assottigliamento dei margini nel 2019, è stato quasi sempre questo ‘bicchiere mezzo vuoto’ a dominare la price-action a valle dell’annuncio dei risultati. Mentre negli Stati Uniti il problema sembra essere più prospettico, o al limite di percezione, che attuale, in Europa i risultati, che hanno toccato il picco di intensità nella settimana appena conclusa, non sono entusiasmanti neanche nella loro rappresentazione attuale. Il bilancio tra chi ha battuto le stime e chi ha deluso è stato negativo per la prima volta negli ultimi 4 anni, sia sul fronte degli utili che su quello dei ricavi. In termini relativi gli utili hanno faticato di più, segnale di come siano i margini aziendali ad andare sotto pressione.
Il timore che il meglio sia ormai alle spalle…
Brexit. Con il passare delle settimane e l’accorciarsi del tempo disponibile per una prima quadratura del cerchio (accordo di divorzio e dichiarazione programmatica sugli assetti futuri) sta comprensibilmente aumentando la volatilità della situazione e, conseguentemente, del flusso di notizie che la riguardano. Durante il fine settimana uno scoop del Times avrebbe presentato come più avanzate di quanto dichiarato finora lo stato delle trattative (Revealed: Theresa May’s secret Brexit deal). L’ottimismo è stato però presto controbilanciato da un contro-scoop del Telegraph (Exclusive: Dominic Raab has privately demanded the right to pull Britain out of EU backstop after three months) secondo cui la rigidità sul tema frontiera irlandese da parte del ministro per la Brexit rimane un ostacolo non superato. Il raggiungimento di un accordo con l’EU resta fortemente condizionato dalla sua sostenibilità domestica nella necessità di una ratifica parlamentare quanto mai complicata. Theresa May, con la sua risicata maggioranza, deve districarsi tra i laburisti aperti alla Brexit, l’ala oltranzista dei Tory e gli Unionisti (DUP, 10 deputati necessari alla maggioranza in mancanza di appoggi esterni). Non a caso l’ennesimo scoop riguarda proprio la possibilità che il Primo Ministro metta quanto prima (già domani) il suo governo davanti a un necessario out-out: schierarsi apertamente a favore dell’accordo di uscita o dare le dimissioni dall’esecutivo (https://www.express.co.uk/news/uk/1039864/Brexit-News-Theresa-May-cabinet-Tuesday-BBC-Brexitcast-Gavin-Williamson-Jeremy-Hunt). Restate sintonizzati.
La partenza di settimana sui mercati asiatici è stata tutt’altro che entusiasmante. L’inversione di rotta accusata da Wall Street nel pomeriggio si è fatta sentire: Nikkei -1.4%, Hang Seng -2.3%, Shanghai Comp -1.1%. Il future dell’S&P 500 è comunque poco lontano (-0.2%) dai livelli di chiusura di venerdì.
Il piatto forte della settimana sarà servito nella note tra martedì e mercoledì con le attese elezioni di metà mandato negli Stati Uniti su cui cercheremo di scrivere in maniera più approfondita domani. Ci sarà poi la riunione (solo comunicato) della Federal Reserve (mercoledì) che, per restare nel campo delle decisioni monetarie, sarà accompagnata dalle riunioni di RBA (martedì all’alba, exp. tassi invariati a 1.50% ) e RBNZ (mercoledì sera, exp. tassi invariati a 1.75%). Su fronte dei dati macro economici tra oggi e domani i PMI servizi completeranno il polso della congiuntura globale aggiungendosi alle più seguite rilevazioni manifatturiere di settimana scorsa.
Segnaliamo anche la bilancia commerciale cinese (giovedì), la crescita GDP UK e il PPI US (entrambi venerdì). Buona settimana.
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