di Jason Martin
Se state seguendo la telenovela che sono diventate le trattative sulla Brexit, si ha l’impressione che, anche se la decisione del Regno Unito del 23 giugno 2016 di separarsi dal blocco di 28 paesi membri noto come Unione Europea sembra aver messo il paese a rischio economico, i restanti 27 membri UE abbiano poco da perdere dalle procedure di divorzio.
Sembrerebbe che, qualunque siano le conseguenze per il Regno Unito, i paesi che restano nell’Unione continueranno - come gruppo - ad essere una potenza politica ed economica regionale.
Tuttavia, anche se le immediate conseguenze si sono fatte sentire nell’economia britannica come discusso in un’analisi precedente, ad inizio settimana, i media sembrano aver esaminato la questione solamente dal punto di vista britannico, evitando generalmente di riferirsi ad eventuali effetti negativi sulle nazioni che restano nell’UE.
Inizialmente, l’UE veniva inclusa nelle notizie, dal momento che le persone da entrambe le sponde della Manica si preoccupavano di come se la sarebbero passata i cittadini residenti dall’altra parte, se avessero perso la loro libertà di movimento.
Quando entrambe le parti hanno chiarito la loro intenzione di mantenere lo status quo per i residenti all’estero già stabilitisi nei loro territori, i costi per l’UE derivanti dalla prevista uscita del Regno Unito sembrano essere svaniti dalla vista e i riflettori si sono spostati sulla necessità che il Regno Unito paghi gli obblighi finanziari e sugli effetti sulla sua economia, visto che i futuri accordi commerciali restano nel limbo, anche se la sterlina è scesa facendo salire l’inflazione e spingendo la Banca d’Inghilterra ad alzare i tassi in occasione dell’ultimo vertice di politica monetaria.
Abbiamo già parlato di come il Regno Unito stia rischiando di perdere l’opportunità di ottenere un buon accordo nella precedente analisi e ci concentreremo ora sull’impatto sull’UE.
Dato di fatto: l’UE sarà colpita economicamente
Quando leggiamo gli articoli sulla Brexit, è importante ricordare che qualsiasi accordo futuro sarà a doppio senso. I costi per una parte saranno riflessi dall’altra, sebbene ad un grado maggiore o minore.
Nella peggiore delle ipotesi, nota come “hard Brexit”, in cui le due parti non riescono a raggiungere un accordo commerciale, verranno applicate le norme dell’Organizzazione Mondiale del Commercio ai prodotti inviati dal Regno Unito all’UE e viceversa.
Molti prodotti industriali vedranno un aumento delle tariffe solo tra il 2% e il 3%, mentre quelle sulle auto schizzeranno del 10% e quelle sui prodotti agricoli vedranno un’impennata tra il 20% e il 40%.
In effetti, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) nelle ultime prospettive economiche regionali ha avvertito che la Brexit probabilmente avrà un impatto dannoso su entrambe le parti.
“In queste circostanze, temiamo che la crescita economica ne possa soffrire, specialmente nel Regno Unito, ma anche nella zona euro”, ha affermato il FMI (enfasi nostra).
Proprio come il FMI, molti analisti prevedono che l’economia britannica sarà colpita più di quella degli altri 27 membri. In un recente report di Oxford Economics, gli analisti prevedono che l’impatto sul Regno Unito sarà 10 volte superiore a quello sull’UE. Tuttavia, il punto fondamentale resta che il danno sarà in realtà avvertito da quelli che vengono lasciati indietro.
Secondo il report, una rottura delle trattative che risulti in un mancato accordo comporterebbe un aumento del 3,1% del costo di importazione di beni dall’UE, ma il blocco pagherebbe anche il 3,5% in più per le esportazioni britanniche. E mentre per il Regno Unito questo si applicherebbe a circa il 60% dei beni esportati e importati, l’impatto per tutti i paesi UE tranne l’Irlanda, sebbene inferiore, sarebbe comunque pari al 10%.
Come mostra il grafico di Bloomberg sopra riportato, anche se non ci sono dubbi che il Regno Unito soffrirà di più, la crescita economica UE non resterà illesa.
L’UE otterrà davvero quei posti di lavoro nel Regno Unito?
Le notizie si sono focalizzate soprattutto sui “benefici” che l’UE avrà dal divorzio, in particolare sulle modifiche nel settore finanziario. I titoli dei giornali sono zeppi di notizie sulle banche che stanno preparando piani di emergenza comprendenti il trasferimento di alcuni dipendenti e/o attività a Francoforte o Dublino nei timori che una hard Brexit possa annullare i diritti conferiti dal passaporto che consentono alle imprese con sede nel Regno Unito di fare affari dall’altra parte della Manica nell’ambito dell’appartenenza all’UE.
Secondo il principale supervisore bancario della Banca Centrale Europea Daniel Nouy, circa 50 banche che operano in UE dal Regno Unito si sono rivolte a dei supervisori per chiedere informazioni su come trasferirsi e continuare con le attività. Inoltre, la Banca d’Inghilterra prevede che il paese perderà fino a 75.000 posti di lavoro nel settore dei servizi finanziari in seguito all’uscita dall’Unione Europea nel 2019, secondo quanto riportato dalla BBC a fine ottobre.
Degno di nota il fatto che le stime sulla perdita di posti di lavoro nel settore dei servizi finanziari nel Regno Unito siano passati dal minimo di zero al massimo di 220.000.
Tuttavia, l’idea che Francoforte e Dublino sarebbero i probabili beneficiari di questi posti di lavoro trasferiti potrebbe non essere così certa. L’Amministratore Delegato della London Clearing House Daniel Maguire ha affermato verso fine ottobre che spostare la loro divisione di Rates Swaps in un altro paese UE da Londra dopo la Brexit non sarebbe un “fatto compiuto”. In effetti, Maguire ha suggerito che un trasferimento a New York sarebbe un’opzione meno costosa.
Un precedente per futuri abbandoni populisti
Oltre all’impatto economico immediato, la principale minaccia per il futuro dell’UE potrebbe essere il precedente creato dal Regno Unito nel lasciare il blocco.
Anche se l’esito per il paese resta da vedere, l’uscita dall’unione nata per avvicinare gli europei apre la strada all’ondata di populismo in rapido sviluppo nella regione, che protesta contro l’immigrazione e l’assenza di libertà politica ed economica, in particolare per quanto riguarda quei membri che fanno parte anche della zona euro, l’unione monetaria più piccola all’interno della più vasta UE.
La moneta unica ha mostrato una ripresa migliore della sterlina, che è ancora giù del 12% contro il dollaro. Al contrario, l’euro al momento è schizzato di quasi il 4% contro il biglietto verde dal referendum del 23 giugno 2016.
Da una parte, gli operatori dei mercati sembrano aver preventivato un impatto negativo minore per la zona euro nonostante l’incertezza che circonda le trattative sulla Brexit.
Anche la Banca Centrale Europea ha supportato la valuta: l’autorità monetaria della zona euro ha tolto il piede dall’acceleratore ed ha iniziato a seguire l’esempio della Federal Reserve riducendo la politica economica accomodante sulla scia delle ottime letture sulla crescita, in particolare in Germania.
All’inizio dell’anno, la preoccupazione dei mercati era in particolare la possibilità di vittorie elettorali dell’estrema destra nei Paesi Bassi, in Francia e in Germania.
A pochi mesi dal voto sulla Brexit, si temeva che i partiti euroscettici potessero salire al potere e spingere non solo per un’uscita dall’Unione Europea ma anche dalla zona euro.
Tuttavia, con lo svolgersi degli eventi nel 2017, l’euro ha iniziato a schizzare dal momento che il “disastro” era stato evitato e i partiti consolidati nelle suddette elezioni avevano mantenuto il potere.
Anche se i movimenti populisti hanno ottenuto dei voti, non sono stati sufficienti per prendere il controllo.
I mercati hanno tirato un sospiro di sollievo dopo i risultati di ciascuna delle elezioni ma la minaccia di disgregazione di recente è tornata alla ribalta.
L’instabilità politica in Spagna, con la regione catalana che ha tentato di dichiarare l’indipendenza in quella che sarebbe stata di fatto una rottura con l’UE, ha messo pressione sull’euro e resta ancora irrisolta al momento della scrittura, in vista delle elezioni del 21 dicembre.
Anche la vittoria alle elezioni generali in Austria da parte del partito conservatore di destra, Partito Popolare, sulla scia del suo programma anti-immigrazione ha contribuito al nervosismo, insieme all’elezione del populista Andrej Babis come primo ministro della Repubblica Ceca, membro UE.
Preoccupa anche l’Italia, dove le due regioni più ricche hanno indetto dei referendum per ottenere maggiore autonomia. Tutto ciò è una prova che lo status quo UE è tutto, tranne che stabile.
In breve, l’unità dell’UE resta precaria e la scelta del Regno Unito di abbandonare una relazione di cui poco più della metà dei suoi cittadini non era soddisfatta, fornisce uno schema che potrebbe essere seguito da altri se i gruppi populisti, che persistono nel gruppo, dovessero alla fine raggiungere il potere.
In realtà, nessuno afferma che l’UE sarà colpita, economicamente ed ideologicamente, dall’uscita del Regno Unito.
È un motivetto di sottofondo mentre i politici UE alzano il volume sulla necessità che i negoziatori britannici “facciano chiarezza”, distogliendo al contempo l’attenzione dalle possibili conseguenze negative per la stessa unione.
Anche se questa potrebbe essere un’efficiente tattica diversiva, bisognerebbe ricordare che in ogni divorzio le parti coinvolte sono sempre due.
L’UE non uscirà indenne dalla Brexit. Tuttavia, resta da vedere quanto il processo finirà per distruggere il resto dei 27 membri della famiglia.