Dopo aver toccato quota 50,39 USD lunedì, sull’onda dell’esito positivo delle discussioni fra i ministri del petrolio dell’Arabia Saudita e della Russia, mercoledì il prezzo al barile del West Texas Intermediate con consegna a settembre è tornato a 48,92 USD. L’entusiasmo del mercato per la decisione di prorogare l’accordo sulla riduzione della produzione fino a marzo 2018 è durato poco, perché gli investitori hanno dovuto fare i conti con la realtà.
Stando ai dati forniti da Baker Hughes, negli USA il numero complessivo di trivelle per l’estrazione di gas e petrolio è salito a 885, livello massimo dall’agosto del 2015, mentre le trivelle petrolifere USA sono aumentate di 9 unità, per un totale di 712.
Come già detto la scorsa settimana, l’OPEC e i suoi alleati si trovano in una posizione difficile, perché qualsiasi sforzo volto a stabilizzare i prezzi del petrolio andrà a beneficiare l’industria degli scisti bituminosi USA.
Le aziende USA operanti nell’esplorazione e nella produzione sono nella posizione ideale per trarre vantaggio dalla situazione. Ecco perché continuiamo a credere che, nel breve termine, i prezzi del greggio continueranno a salire, seppur modestamente. Crediamo che sia molto improbabile un miglioramento sostenibile dei prezzi del greggio, con i produttori USA che pompano come dei pazzi, mentre l’OPEC e i suoi alleati tagliano la produzione. Sarà necessario un miglioramento significativo dei fondamentali affinché un barile di WTI superi i $60.
Mercoledì il WTI ha esteso le perdite, scendendo a 48,38 USD (prezzo generico), con una flessione infragiornaliera dello 0,58%, mentre il suo omologo del Mar del Nord è calato dello 0,35%, a 51,47 USD.