A nostro avviso, i prezzi del petrolio si stabilizzeranno intorno a $70-80 al barile, anche se uno shock geopolitico potrebbe far salire i prezzi ancora di più.
Il rialzo è dovuto alla richiesta globale (importazioni cinesi di petrolio ai massimi storici), le interruzioni nella distribuzione in Nigeria e le aspettative di sanzioni sulle forniture da Iran e Venezuela.
L’aumento dei prezzi non ha generato un’ondata di sovrapproduzione negli USA.
Ciò farebbe abbassare i prezzi, ma la maggiore domanda interna ha esaurito le nuove forniture (le scorte rimangono sotto la media storica).
Anche i produttori di petrolio stanno reagendo in modo conservativo.
Le società upstream si sono impegnate con i loro azionisti a mantenere un approccio moderato, non aumentando la produzione durante fase temporanee di volatilità del prezzo.
In passato questa è stata una strategia costosa, che ha prodotto solo profitti supplementari marginali e invece moltissimi debiti.
Siamo ancora pessimisti sul fatto che la domanda estiva soddisferà le aspettative del mercato.
Ci concentriamo però maggiormente sugli sviluppi geopolitici quale primo catalizzatore per rialzi futuri. Anche se la produzione iraniana sarà resiliente, vista la riluttanza dell’UE a sostenere le azioni degli USA, essa subirà un rallentamento.
Anche in Venezuela la produzione continuerà a diminuire a causa dei disordini sociali e della probabilità di ulteriori sanzioni di Trump.
C’è chi sostiene che il presidente Trump abbia le mani legate in politica estera per paura di un aumento dei prezzi della benzina.
Secondo noi le opzioni di politica non sono così limitate.
Crediamo che Trump voglia far aumentare i prezzi, perché la produzione di energia è un’importante base di consensi.
Prezzi più alti equivalgono a posti di lavoro, retribuzioni più elevate e investimenti negli stati “rossi” (repubblicani).
Anche le sanzioni contro Iran e Venezuela incontrerebbero il favore dei suoi sostenitori. I prezzi più alti fungeranno anche da tassa sugli stati “blu” (democratici).