I dati governativi USA hanno evidenziato che lo scorso anno le esportazioni petrolifere americane sono aumentate del 70% a circa 2 milioni di barili e stanno proseguendo ad una media superiore alle esportazioni del Kuwait.
Tra gli operatori del settore c’è ottimismo sul fatto che le esportazioni possano raggiungere i 5 milioni di barili entro la fine del 2020, un altro +70% rispetto ai livelli attuali. Se ciò fosse confermato, vorrebbe dire che complessivamente gli Stati Uniti esporterebbero più greggio di tutti i paesi OPEC, ad eccezione dell'Arabia Saudita.
Gli Stati Uniti sono già un grande esportatore di prodotti raffinati anche se al momento rimangono ancora importatori netti.
L’EIA prevede che le esportazioni americane raggiungeranno circa 9 milioni di barili entro cinque anni. Vale la pena notare come fossero a 1 milione nel 2012. L’obiettivo è quindi quello di diventare il secondo più grande esportatore mondiale di greggio e di prodotti raffinati entro il 2024, superando la Russia e raggiungendo quasi l'Arabia Saudita.
Fino ad ora, questo aumento di produzione dai giacimenti del Permiano e del Nord Dakota sono stati assorbiti dalla domanda interna, alimentando le raffinerie americane lungo la costa del Golfo del Messico. I raffinatori statunitensi stanno trovando molte difficoltà a lavorare questo tipo di greggio perché gli impianti erano stati costruiti per trattare il greggio più pesante, come quello estratto in Venezuela e nel Medio Oriente.
Di conseguenza, sembra che società come Marathon Petroleum Corp (NYSE:MPC). siano alla ricerca di compratori del loro shale a Singapore e in Corea del Sud.
Questo incremento di produzione deve chiaramente essere esportato, per cui servono le raffinerie a cui vendere questa enorme produzione e sembra che la destinazione possa essere in Asia.
La chiave di volta per risolvere questo potenziale problema sarebbe ovviamente la Cina, che però è coinvolta nella nota guerra commerciale con Washington. Fino allo scorso anno i raffinatori cinesi acquistavano una grossa percentuale di scisto americano. Questi flussi si sono praticamente interrotti circa sei mesi fa ma, se la produzione degli Stati Uniti aumentasse effettivamente ai ritmi preventivati, l'industria dello scisto si troverebbe costretta a chiedere a Trump di firmare un accordo commerciale con i cinesi.
Se questa situazione di stallo dovesse continuare ancora a lungo, i produttori americani dovrebbero probabilmente rivolgersi al sistema di raffinazione globale, magari praticando sconti sui prezzi pur di trovare raffinatori sufficienti a sostenere questo aumento di produzione. E’ possibile che questo stia già avvenendo se consideriamo che il WTI tratta a circa 10$ meno del Brent.
Gli addetti ai lavori sono convinti che nel 2019 gli Stati Uniti aumenteranno la produzione di 1 milione di barili. Questo incremento dovrebbe avvenire soprattutto nella seconda metà dell’anno perché il rallentamento delle esplorazioni e il taglio dei costi e del personale da parte dei produttori indipendenti, sembra sia principalmente legato alla ricerca di un miglioramento della redditività per riuscire a garantire maggiori ritorni economici agli azionisti.
Se le previsioni si dimostrassero corrette, la produzione di greggio USA supererebbe i 13 milioni di barili entro dicembre vs gli 11,8 milioni di barili prodotti alla fine dello scorso anno.
Guardando fuori dagli Stati Uniti è interessante notare come il Ministro del Petrolio saudita, Khalid Al Falih, abbia spiegato che i 25 paesi che partecipano ai tagli alla produzione OPEC e non-OPEC stiano adottando un approccio molto lento e misurato.
In realtà, sembra che la produzione OPEC sia scesa di poco perché alcuni produttori stanno sovra producendo significativamente.
A gennaio, l’OPEC ha tagliato la produzione di 797.000 barili al giorno (meno dell’obiettivo di 812.000). La maggior parte dei tagli è stata però effettuata dall’Arabia Saudita, che ha ridotto la sua produzione di 350.000 barili.
Se si guarda i paesi non-OPEC la situazione è dissonante dall’accordo. I tagli della Russia (il principale paese non-OPEC che partecipa al piano) sono molto lontani dalla quota concordata e sembra che la produzione sia addirittura salita a gennaio.
Il Kazakistan sta sostanzialmente ignorando l’impegno di ridurre la produzione e nel 2018 ha fatto registrare i massimi storici della propria produzione. Il principale giacimento del Kashagan ha prodotto 380.000 barili al giorno a gennaio 2019 e non sembrano intenzionati a ridurli.
Quando a febbraio l’Arabia Saudita ha ribadito che intende tagliare ancora la produzione e ridurre nuovamente le esportazioni verso gli Stati Uniti, ha innescato un ulteriore rialzo. Al momento, se non consideriamo gli Stati Uniti, soltanto l’Arabia Saudita sarebbe in grado di aumentare significativamente la produzione per sopperire ad un eventuale shock.
Per questo motivo il mercato continua a salire proprio perché la situazione globale è molto complessa e, nel dubbio, fa comodo un po’ a tutti i produttori se il prezzo rimane stabilmente a questi livelli. Considerando la situazione economica globale si può dire che a 60$ il prezzo rifletta i fondamentali, soprattutto se dovesse esserci un ulteriore spike rialzista.