A cura di Michele De Michelis, responsabile investimenti di Frame Asset Management
Tanto tuonò che piovve...
Alla fine, la reazione del mercato azionario americano è arrivata (ricordate il mese scorso quando dicevo che il mercato “era in attesa?”) ed è stata anche discretamente violenta, considerando una perdita di poco più del 10% in soli 16 giorni lavorativi.
A soffrire in particolare sono state le "magnifiche sette", che sono entrate ufficialmente in bear market, avendo ceduto più del 20% rispetto al massimo del 2024.
Il fastidio che grava sugli indici a stelle e strisce a questo punto è evidente.
L’incertezza sulle reali mosse che attuerà il presidente Trump, che continua a minacciare mezzo mondo per poi modificare all’indomani le sue minacce, con la conseguenza che l’economia sta rallentando nel primo trimestre.
Ovviamente non ha neanche aiutato il report della FED di Atlanta, che è uscito con una previsione scioccante di un PIL in calo del 2,8%. Questo dato è stato generato da un modello che considera "meccanicamente" gli andamenti dei consumi, degli investimenti, delle importazioni, etc., e che quindi, ad un’analisi più approfondita, risulta essere influenzato da un’anomala importazione di oro da Londra, poiché le aziende stanno accumulando scorte in previsione di potenziali dazi. Tuttavia, è innegabile che vi sia anche un indebolimento genuino della domanda dei consumatori, come evidenziato dai sondaggi sul sentiment, che segnalano una crescente stanchezza nella fiducia generale.
Tra tutte le varie interpretazioni che ho letto in merito, quella che mi è sembrata più interessante proviene da un stimato collega che, a sua volta, l’ha presa a prestito da un analista. In pratica, il governo americano avrebbe un grosso problema nei prossimi sei mesi: la scadenza di circa 7 trilioni di titoli di Stato.
E in questo momento, il tasso di interesse sarebbe intorno al 4%, un esborso impressionante rispetto a quando erano stati emessi con tassi prossimi allo zero.
Ecco quindi spiegati gli eccessi degli ultimi tempi di Trump, come i tagli del settore pubblico, piuttosto che questo continuo ping pong sui dazi, quasi a voler far rallentare volutamente l’economia americana per spingere la FED ad abbassare i tassi.
Questo perché Powell e soci non possono abbassare i tassi con un ciclo ancora forte, per non rischiare l’inflazione. E allora, meglio provare a stoppare la locomotiva tirando il freno a mano, piuttosto che farla deragliare successivamente a causa di un deficit insostenibile.
Potrebbe sembrare fantascienza economica o la trama di un film hollywoodiano, non lo so, però mi sembra un modo intelligente, seppur fuori dagli schemi, per interpretare i comportamenti di Donald Trump, che è sempre stato un uomo estremamente pragmatico.
Un’altra conseguenza importante alla quale stiamo assistendo, figlia degli eccessi americani, è stata sicuramente l’approvazione del piano di spesa monstre del governo tedesco, che ha deciso di abbandonare i rigori contabili che tanto facevano disperare il nostro ex presidente della BCE, Mario Draghi.
Questa enorme somma di mille miliardi potrebbe veramente consentire all’economia europea di emanciparsi da quella americana, anche se avrei preferito che questi soldi fossero destinati soltanto alle infrastrutture piuttosto che al riarmo, a dimostrazione dei giorni difficili che sta vivendo l’umanità in questo periodo.
Direi quindi che, dopo tanto tempo, mi sento di consigliare di aumentare l’equity europeo nei portafogli, anche se non ho mai visto, in trent’anni di lavoro nel settore, gli indici azionari continentali superare indenni eventuali crisi provenienti da oltre oceano.
Dobbiamo quindi augurarci che non avvenga quanto predetto dalla FED di Atlanta e che, alla fine, seppur si stia scherzando con il fuoco, nessuno si bruci.
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