I dati macroeconomici continuano a pervenire migliori delle attese: la scorsa settimana hanno fatto sensazione le richieste di sussidi iniziali di disoccupazione negli Stati Uniti, ai livelli più bassi da inizio 2008; e il sondaggio mensile dell’Università del Michigan, che per due mesi su tre ha battuto le stime di oltre cinque punti.
Ciò non ha impedito ai corsi azionari di flettere, dopo quasi quattro mesi di rialzi, ma la correlazione evidente fra Citigroup Economic Surprise Index e andamento dello S&P (e in definitiva di tutti i mercati azionari) induce a ritenere prematuro il momento in cui disimpegnarsi dai mercati di rischio.
Poco più di un anno fa Wall Street raggiungeva un minimo dal quale lo S&P è decollato: di giusto 400 punti (ovvero: +37%) fino al massimo del mese scorso. Un rialzo sfavillante, maturato oltretutto in un contesto di bassissima volatilità: in un anno, le sedute da +2% sono state soltanto 8.
Un comportamento che da un lato ha dissuaso molti investitori dal partecipare al rialzo, in mancanza di strappi che attirassero l’attenzione; dall’altro è viceversa risultato ricorrente in occasione del precedente bull market ciclico del 2003-2007.
Nel frattempo in Italia persiste la divergenza fra mercato azionario e misura del rischio di insolvenza: il Credit Default Swap a 5 anni scende a 303 punti base. È il livello più basso dal 28 luglio 2011, quando l’indice FTSE-MIB si attestava a 18558 punti: il 20% in più dei correnti livelli.