Di Fabrizio Crespi
Ricercatore in Economia degli Intermediari finanziari presso l’Università di Cagliari.
Di finanza comportamentale se ne parla ormai da tempo anche in Italia. Anzi, forse troppo. E sicuramente sulla materia vi sono personaggi ben più ferrati del sottoscritto: Paolo Legrenzi, Enrico Maria Cervellati, Ruggero Bertelli, Duccio Martelli, Matteo Motterlini …. giusto per citarne alcuni.
Generalmente, però, gli incontri, i dibattiti, i corsi di formazione inerenti alla finanza comportamentale si focalizzano sugli errori emotivi e cognitivi dei risparmiatori. In particolare, si cerca di insegnare ai consulenti finanziari come riconoscere le più importanti euristiche e i più ricorrenti bias che colpiscono i clienti, così da poter intervenire per sanarli e per migliorare la relazione.
Si dà cioè per scontato che il consulente finanziario, soggetto razionale in quanto professionista del settore, dovrebbe essere in grado, attraverso una adeguata comunicazione/persuasione, di condurre il cliente a scelte di investimento meno distorte da errori comportamentali o da sbalzi di umore.
Tuttavia, chi si occupa di finanza comportamentale sa benissimo che nessuno (e sottolineo nessuno) è immune da errori cognitivi ed emotivi. Anzi, professionisti e manager di alto livello, pur competenti nel settore in cui operano, sono spesso più soggetti a cadere in alcuni tipi di comportamenti distorti nonostante la loro presunta razionalità[1].
Proprio per questo fui ben felice (e anche divertito devo ammettere) quando, qualche tempo fa, un manager di una rete di consulenti mi chiese di imbastire un intervento formativo per i suoi uomini, dedicato non solo e non tanto ai tradizionali principi base della finanza comportamentale, ma all’analisi degli errori che gli stessi consulenti finanziari generalmente commettono nella loro attività.
Ve ne propongo di seguito una sintesi premettendo che, ovviamente, lo scopo non è quello di accusare i consulenti finanziari (a cui da anni riconosco di fare un gran bene per i loro clienti!), ma anzi di aiutarli a migliorarsi se dovessero rivedersi nelle fattispecie illustrate.
- Overconfidence: si tratta di un bias che colpisce molti professionisti. Più si sa di una cosa, più si è certi di sapere. In realtà, per quanto esperti siamo, specie nel campo dei mercati finanziari, le nostre capacità predittive sono limitate. In questo caso il consulente, vestendosi da gestore/analista, si cimenta davanti al cliente (e in parte da questi spinto[2]) in analisi e dissertazioni su tematiche economico-finanziarie: l’andamento delle borse, dei tassi di interesse, del cambio euro-dollaro (quando è noto che quest’ultimo sia prevedibile solo da Dio… diffidate delle imitazioni pertanto!). Consiglio: rimanere umili e concentrarsi sulle esigenze del cliente.
- Ancoraggio: anche questa euristica colpisce tutti, consulenti compresi. Quante volte ho sentito frasi del tipo: “il mercato è salito troppo …. A breve storna!”; “Siamo ai minimi …. Se non si investe ora!”. Si tratta, ad evidenza, di affermazioni legate ad una errata percezione dei numeri, dei grafici e delle proprie capacità previsionali (qui c’è ancora un po’ di overconfidence). Inoltre, l’esperienza accumulata nel settore, specie per i consulenti più attempati, fa sì che si dia troppo per scontato il ripetersi di andamenti passati (in positivo o in negativo). Consiglio: meno grafici, più PAC. Concentrarsi sulle esigenze del cliente
- Auto-attribuzione: è un errore tipico del cliente che attribuisce a sé le buone performance, e quelle cattive al consulente, al mercato, alla politica, alla sfortuna… insomma, a qualcun altro. Ma lo stesso capita al consulente: quando le cose vanno bene il guru è lui (anche se per pudore non lo dirà mai), quando le cose vanno male la colpa è della mandante, del gestore, dei mercati, di Draghi, di Trump ... o del cliente stesso. Consiglio: ricordarsi che il successo è spesso solo questione di fortuna… Bravi, costanti, e appassionati lo siamo tutti (e ciò sicuramente non guasta). Concentrarsi sulle esigenze del cliente
- Herding behavior: il “comportamento da gregge” rappresenta un’altra distorsione tipica nelle scelte di investimento dei risparmiatori. Spesso si acquistano prodotti, titoli, strumenti finanziari solo perché è di moda o perché li ha comprati l’amico o il parente. Per i consulenti, l’herding behavior colpisce nel momento della scelta dei prodotti, soprattutto fondi, da proporre ai clienti i quali poi, generalmente, acquistano in definitiva ciò che viene consigliato loro dal consulente. Ora, per quanto tale distorsione sia mitigata dal fatto che sempre di più i portafogli consigliati/modello sono strutturati dall’asset management (e si spera secondo approcci e logiche “scientifiche” e razionali), rimane il fatto che all’interno dei portafogli di un gruppo di consulenti vi possa essere un sovrappeso di fondi di una certa casa di investimento, a discapito di altre, solamente perché il leader carismatico del gruppo (o colui che ha il portafoglio più grande) predilige tale società. Oppure è la capacità dei sellers delle case di investimento (non poco frequentemente veri adoni e veneri) a far propendere per alcuni prodotti e non per altri[3]. A volte, è semplicemente la moda del momento. Permettetemi l’aneddoto di vita vissuta: qualche hanno fa ho conosciuto consulenti veramente depressi perché …. “non abbiamo Carmignac nella nostra offerta!”. Consiglio: non innamorarsi di un prodotto o di una casa di investimento (eventualmente di un seller). Concentrarsi sulle esigenze del cliente.
Ma soprattutto, l’errore più grave in cui il consulente può cascare è quello di sostituire il proprio profilo di rischio a quello del cliente; l’asset allocation viene cioè implementata sulla base delle credenze, delle aspettative, dei timori, dell’età e della propensione al rischio del consulente, e non del cliente! Anche senza accorgersene, il consulente percepisce l’insieme dei portafogli dei clienti come un tutt’unico.
Ad esempio, quante volte ho sentito dalla bocca dei consulenti frasi del tipo: «Mah, sai, in questo periodo non sono molto esposto sull’azionario»; «No, non ho tanto azionario in portafoglio»; «Ho aumentato l’esposizione in dollari recentemente». E allora mi chiedo: ma che senso hanno queste affermazioni? Il portafoglio è il tuo o quello dei clienti?
Consiglio: stasera, quando andate a casa … date una carezza ai vostri bambini. Ma poi, aprite il computer e controllate i portafogli dei vostri clienti: se vi sembrano tutti molto simili nella loro composizione, allora .... Houston abbiamo un problema![4]. Concentrarsi sulle esigenze del cliente
Reference shelf
- Malmendier U., Tate G., Does Overconfidence Affect Corporate Investment? CEO Overconfidence Measures Revisited, European Financial Management, Vol. 11, No. 5, 2005, 649–65
[1] Si veda ad esempio Malmendier e Tate, 2005
[2]Il cliente, infatti, percepisce spesso il consulente come un analista finanziario, specie se è lo stesso consulente ad avergli in qualche modo inculcato tale credenza. Ed allora si aspetta da lui “la dritta” ed anzi, quando gli investimenti vanno male, come durante la crisi finanziaria del 2008, si stupisce che questi non abbia previsto l’evento negativo. “Ma come, voi che siete del campo non lo sapevate?”. Classico esempio del bias denominato “senno del poi”
[3]E’ infatti noto e provato che i fondi di investimento più venduti non sono quelli più efficienti.
[4]A discolpa dei consulenti, è tuttavia giusto osservare che, spesso, l’empatia che si crea con i clienti, la vicinanza di età (i clienti invecchiano con i consulenti), e la similitudine delle esperienze di vita (il matrimonio, i figli, la famiglia ecc ..) rendono in effetti i profili dei clienti similari a quelli dei loro consulenti. Inoltre, l’impostazione dei questionari di profilazione, e il modo in cui vengono erogati, possono portare ad avere buona parte dei clienti catalogati in fasce di rischio similari. Ma se un consulente ha 150/200/300 clienti, non potranno di certo essere tutti uguali!