Dati importanti in uscita in questa settimana: oggi alle 8:00 la produzione della Germania MoM di novembre (stima +0,1% contro -0,1% di ottobre), alle 11:00 il tasso di disoccupazione dell’Europa di novembre, previsto stabile al 6,5%. Giovedì alle 14:30 è il turno dei sussidi settimanali USA alla disoccupazione (stima 220k contro 204k della scorsa settimana). Sempre alle 14:30 sarà resa nota l’inflazione USA di dicembre (stima 6,5% contro 7,1% di novembre). Venerdì alle 16:00 uscirà la fiducia dei consumatori dell’Università del Michigan di gennaio (stima 60 punti contro 59,7 di dicembre).
L’economia USA si trova in una fase delicata. E fin qui pensiamo che non ci siano dubbi. I dati noti e quelli stimati (se confermati) indicherebbero che la FED potrebbe (il condizionale è d’obbligo) avvicinarsi al raggiungimento di tutti e tre i suoi più importanti obiettivi. L’aumento dei tassi di interesse di 375 bp da gennaio ha portato ad un calo dell’inflazione (anche se rimane elevata come ha ricordato recentemente Powell), la disoccupazione è nell’intorno del tasso naturale (praticamente tutti gli americani sono occupati) e il PIL del 3Q22 è cresciuto del 3,2% grazie anche alla dinamica del +2,3% di consumi personali (nel 4Q22 è atteso comunque in rallentamento del PIL).
I dati indicano che tutto sommato il sistema economico potrebbe reggere ulteriori aumenti di almeno 100 / 150 bp (tra cui è probabile il primo da 50 bp nel prossimo meeting del 25/36 gennaio), planando verso un soft landing e con una disoccupazione che salirebbe al 4%. Questo consentirebbe probabilmente di accelerare il raggiungimento dell’obiettivo di inflazione del 2%.
Se lo scenario è quello delineato, allora perché l’economia si trova in una fase delicata? Crediamo per diversi motivi, Il primo è che pilotare una recessione facendo planare il sistema economico verso un soft landing, contenere la disoccupazione e guidare la crescita dei prezzi verso un equilibrio stabile, non è cosa banale e la situazione potrebbe facilmente “scappare di mano”. Il secondo motivo riguarda la disoccupazione prevista. I licenziamenti che, secondo le recenti notizie di stampa, le principali società tecnologiche e del fintech USA si apprestano a fare nel 2023, potrebbero far crescere la disoccupazione oltre il 5% e per questa via ridurre i consumi in modo violento. Last but not least, lo schock inflattivo potrebbe avere un effetto di trascinamento nel tempo maggiore di quello che ad oggi è possibile prevedere. Da un recente studio di Deutsche Bank (ETR:DBKGn) emerge per esempio che quando il tasso di inflazione si spinge oltre l’8%, ci vogliono poi almeno due anni per farlo scendere sotto il 5-6%. Ovviamente cont tutte le implicazioni economiche che questo comporta.
Le implicazioni per il 2023 indicano in tutti i casi un indebolimento del dollaro che, contro l’euro, potrebbe tornare a 0,9. Dollaro debole normalmente significa che le valute dei mercati emergenti tendono ad aumentare il proprio valore (anche se recentemente sembra che il dollaro si sia indebolito soprattutto a spese di altre valute forti come l’Euro, lo Yen e il Franco Svizzero). Un dollaro debole è anche positivo per il prezzo del petrolio che tende ad avere una relazione inversa con il costo del biglietto verde. Da valutare tuttavia in questa fase come la recessione più o meno lunga e profonda in Europa e negli USA potrebbe influire sul prezzo al barile e anche come potrebbe evolversi la situazione politica nell’IRAN.