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Banche italiane si arrenderanno a imperativo M&A

Pubblicato 23.01.2020, 14:22
Aggiornato 23.01.2020, 14:25
Banche italiane si arrenderanno a imperativo M&A

di Lisa Jucca

MILANO (Reuters) - Le banche italiane stanno affrontando una rinnovata spinta ad aggregarsi. A dieci anni dalla crisi della zona euro, gli istituti italiani si sono liberati della maggior parte dei crediti deteriorati, raddoppiando al contempo i ratio patrimoniali. Il problema ora è come possano ottenere buoni ritorni sul capitale. I tassi di interesse ultra-piatti e i tentativi di limitare l'ammontare di titoli governativi in portafoglio rendono sempre più pressante la necessità di unire le forze tra concorrenti.

Per anni i crediti deteriorati italiani sono stati la principale fonte di mal di testa per i regolatori europei. Ora il dolore si sta attenuando. Una serie di cessioni ha consentito alle banche italiane di dimezzare lo stock di crediti deteriorati lordi nei bilanci a 177 miliardi di euro a giugno dello scorso anno, dai 360 miliardi registrati nel 2015 quando la crisi era all'apice. Molte operazioni di ampia portata, come il piano di cessione da 18 miliardi denominato Fino (Failure Is Not an Option) di UniCredit (MI:CRDI) o quello chiamato Exodus di Banco Bpm (MI:BAMI) da 5 miliardi, avevano nomi drammaticamente evocativi per sottolineare la consapevolezza dei banchieri dell'urgenza del problema.

Al netto degli accantonamenti, le sofferenze a novembre del 2019 erano a 30 miliardi di euro, pari all'1,7% del totale degli impieghi. Contemporaneamente le banche italiane hanno rafforzato i loro buffer di capitale. Il Cet1 medio a fine settembre è al 13,6%, due volte quello registrato prima della crisi finanziaria globale esplosa nel 2007.

Gli sforzi di pulizia dei bilanci hanno ridotto con successo i rischi finanziari, ma hanno avuto un costo. Molte banche italiane sono state costrette a effettuare grosse svalutazioni quando hanno venduto i crediti deteriorati o ad aumentare gli accantonamenti a fronte di future perdite. Il settore nel suo complesso ha generato un Roe annuale di appena lo 0,8% dal 2007, secondo l'Abi.

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Da allora la redditività è balzata: il Roe medio a fine settembre era all'8%, secondo la Banca Centrale Europea. Tuttavia è ancora inferiore al costo del capitale, che autorevoli banchieri italiani stimano a oltre il 10%. Questa è una delle ragioni per cui le banche italiane quotate in borsa scambiano intorno alla metà del proprio valore di libro.

Ci sono poche prospettive di miglioramento. Mentre si confrontano con un'economia italiana stagnante, le banche italiane affrontano anche un prolungato periodo di tassi di interesse ufficiali negativi. Nel frattempo i regolatori sembrano intenzionati ad aumentare i requisiti patrimoniali.

Le banche hanno problemi inediti. Gli istituti italiani detengono circa 400 miliardi di euro in debito sovrano. Pari al 10% degli asset totali, rappresenta una delle percentuali più alte in Europa, pari a due volte il livello registrato prima della crisi finanziaria. Ciò rafforza la "spirale viziosa" che lega le banche in difficoltà ai loro governi con poche risorse.

Per scoraggiare questa concentrazione, il ministro delle Finanze tedesco Olaf Scholz a novembre ha suggerito di togliere al debito pubblico lo status di "privo di rischio". Altre proposte avanzate da responsabili della politica monetaria o da accademici includono un tetto all'ammontare di titoli di stato del proprio paese che le banche possono detenere. Comprare titoli di stato italiani con un rendimento relativamente alto ha rappresentato per le banche una strada facile per aumentare il margine di interesse. Ma se i requisiti più alti sul capitale o i limiti entreranno in vigore, l'effetto sarà assorbito.

A fronte dell'incertezza sugli utili futuri, i manager delle banche italiane hanno tutte le ragioni per procedere ad aggregazioni. L'Italia ha 490 differenti istituti di credito, circa uno per ogni 123.000 abitanti, due volte il rapporto in Spagna. L'attenzione si concentrerà soprattutto sulle aggregazioni domestiche, per le quali le sovrapposizioni possono generare risparmi maggiori. Player di media dimensione come Banco Bpm (MI:PMII), con il CEO Giuseppe Castagna, e Ubi Banca (MI:UBI), con Victor Massiah, possono far partire le danze. Anche gestori di fondi come Banca Generali (MI:GASI) o Azimut (MI:AZMT) Holding possono diventare dei target. Mediobanca (MI:MDBI), che ha un po' di risparmi e sta rafforzando il business dell'asset management, è già a caccia.

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Tuttavia le aggregazioni di successo incontrano degli ostacoli. I regolatori probabilmente chiederanno che per aggregarsi le banche azzerino tutti i debiti problematici esistenti. Questo costringerà gli istituti ad aumentare il capitale e rinviare qualsiasi promessa di dividendi più alti nel breve termine. Inoltre le rigide norme italiane possono limitare la capacità delle banche di ridurre il personale.

In caso di rinvio, i Ceo dovranno presentarsi agli investitori con la poco allettante prospettiva di una redditivtà in graduale calo. E perderebbero la possibilità di usufruire dello schema 'Quota 100' messo a punto dal governo per finanziare i pensionamenti anticipati. Già Banca Carige (MI:CRGI) ne ha approfittato nell'ambito della sua profonda ristrutturazione. Tuttavia la minaccia dei regolatori di penalizzare gli istituti italiani con requisiti patrimoniali più pesanti se continuano a detenere troppo debito pubblico italiano non può essere ignorata.

Nonostante alcune recenti aggregazioni di alto profilo, come quella che ha portato alla creazione di Banco Bpm o l'acquisizione da parte di Intesa Sanpaolo (MI:ISP) di Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza nel 2017, le banche italiane hanno ancora molto spazio per aggregarsi. E con la pressione che cresce, stare fermi non è più un'opzione.

(In redazione a Milano Gianluca Semeraro, Sabina Suzzi)

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