Il mercato statunitense è sopravvalutato?

Pubblicato 04.07.2020, 12:06
Aggiornato 09.07.2023, 12:32
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Dalla chiusura del 23 marzo con un valore di 2237,4, lo S&P 500 ha registrato un notevole rimbalzo del 40%, chiudendo il 3 luglio a quota 3130,1 punti. Per capire se ad oggi il prezzo delle azioni risulti sopravvalutato, andremo ad analizzare il noto Price-Earnings ratio, il quale, ricordiamo, si ottiene inserendo al numeratore il prezzo delle azioni e al denominatore gli utili aziendali; dal 1871 sino ad oggi, tale indicatore presenta una media di 15,78.

Questo cosa significa? Che negli ultimi 150 anni, il prezzo (rispetto agli utili) che gli investitori sono stati disposti a pagare per acquistare azioni societarie, è risultato in media di 15,78, mentre se consideriamo la mediana, il valore scende a 14,82.
Ma quali valori riscontriamo oggi? Al 3 luglio il P/E è pari a 22,44, una differenza di 6,66 punti dalla media e di 7,62 punti dalla mediana.
E’ dunque probabile che ad oggi i mercati siano davvero sopravvalutati. Tuttavia, bisogna considerare tre cambiamenti nei mercati economici e finanziari che potrebbero contribuire, ora e in futuro, ad alzare il valore del P/E.

Il primo fattore da considerare è quello della caduta dei costi di transizione. Negli ultimi due secoli, il ritorno reale delle azioni riguardo lo S&P 500 è stato del 6,5%; eppure, nel corso del diciannovesimo secolo e fino ai primi decenni del ventesimo, era estremamente difficile, se non impossibile, per gli investitori, replicare questi rendimenti delle azioni a causa degli elevati costi di transizione. Tali costi includono le tasse pagate ai broker e l’elevato spread tra la domanda e l’offerta dei titoli; un’indagine mostra come tali spese fossero pari all’1,5% del valore scambiato nel 1975, e dello 0,18% nel 2002, e ovviamente molto più basso ai giorni nostri. Dunque a causa di questi costi, gli investitori di quegli anni erano meno diversificati e assumevano più rischio di quelli impliciti negli indici azionari. In alternativa, se gli investitori avessero tentato di comprare tutte le azioni necessarie per replicare un indice, il loro rendimento reale avrebbe potuto raggiungere il 5%, dopo aver dedotto i costi di transizione.
Se il rendimento reale richiesto da un investitore sul capitale proprio era dunque del 5%, allora ad un P/E di 22,4 dei giorni nostri, corrisponde un earnings yield (l’inverso del P/E) del 4,4%.

Il secondo fattore che potrebbe incidere su un aumento del P/E, è quello del declino dei livelli di rendimento reali raggiunti dalle obbligazioni negli ultimi anni. L’equity premium, ossia il premio per il rischio di detenere azioni invece che obbligazioni, è sempre stato intorno al 3/3,5%. Tuttavia, la caduta dei rendimenti delle obbligazioni implica che il rendimento reale delle azioni non ha più bisogno di essere così alto così come in passato.
Se ipotizzassimo che il tasso reale di lungo periodo riesca ad assestarsi sul 2%, cioè 1/1,5% sotto la sua media di lungo periodo, allora un equity premium del 3% richiederà un 5% di rendimento reale delle azioni, al quale corrisponde un P/E di 20.

Il terzo fattore ha a che fare con l’equity risk premium. Numerosi studi hanno cercato di spiegare le motivazioni che inducono gli individui a richiedere un premio aggiuntivo del 3/3,5% nel possedere azioni rispetto alle obbligazioni; tra questi ricordiamo l’avversione al rischio, e la maggiore importanza data alla paura di vedere perdite nel breve periodo, piuttosto che guadagni nel lungo periodo. Ciò nonostante, come numerosi studi hanno dimostrato, dal 1802 al 2012 le azioni statunitensi hanno avuto un rendimento reale annuale pari al 6,6% contro il 3,6% delle obbligazioni, e dal 2012 ad oggi questo divario di performance è senz’altro aumentato. E nel mentre che performance si sono registrate altrove? Dal 1900 al 2012, tra 19 paesi analizzati, l’Italia è quella che registra la performance peggiore con un rendimento reale annuale delle azioni dell’1,7%, mentre Australia e Sud Africa risultano essere le migliori, con una performance azionaria del 7,2%. La media mondiale risulta essere pari al 4,6%; in tutti i casi, le obbligazioni mostrano performance peggiori in media del 3/3,5% rispetto alle azioni, presentando in alcuni paesi anche rendimenti negativi.

In definitiva cosa possiamo argomentare? Forse parte della spiegazione dell'entità del premio azionario risiede proprio nell'ignoranza del pubblico investitore circa l'entità della sovraperformance delle azioni. Tuttavia, non è difficile immaginare come col trascorrere degli anni, una maggiore diffusione di questi studi presso il pubblico, aumenterà la conoscenza della sovraperformance dei mercati azionari rispetto a quelli obbligazionari, la quale porterà a una maggiore domanda di azioni e conseguentemente ad una crescita del P/E.

Per concludere, in una situazione emergenziale come quella che stiamo attualmente vivendo a causa del coronavirus, potremmo affermare che le azioni siano si sopravvalutate, ma non dell’entità che ci si aspettava, in quanto ci attendiamo che da qui al prossimo futuro, le azioni avranno un P/E decisamente più vicino ad un valore di 20 piuttosto che alla sua media storica di 15. Dunque, alla luce di tali dati e alle imponenti contromisure adottate dalla Federal Reserve, le possibilità di vedere uno S&P 500 sotto i 2000 punti sono quasi impossibili, mentre un ritorno nell’area dei 2500 punti è un evento probabile, ma solo alla luce di nuovi e possibili lockdown nel prossimo autunno e inverno.
 

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