Quando si punta troppo in alto, è bene ricordare che raggiunta la vetta del monte si è a un passo dal precipizio (E. Breda).
Settimana con diversi dati importanti, a cominciare dalla seconda lettura dell’inflazione in diversi paesi Europei.
La scorsa settimana l'occupazione totale non agricola è aumentata di 275k unità a febbraio (198k attesi e 229k in gennaio), grazie al settore sanitario, nel governo, nei servizi di ristorazione e nei luoghi di consumo e nel sociale, assistenza, trasporto e magazzinaggio. Il tasso di disoccupazione è cresciuto a febbraio al 3,9% (3.7% le attese e il dato di gennaio) con il numero dei disoccupati aumentato di 334k a 6,5 milioni. Nel febbraio 2023, il tasso di disoccupazione era del 3,6% e il numero di disoccupati era di 6,0 milioni. La crescita dell’occupazione probabilmente maschera l’indebolimento delle condizioni di fondo del mercato del lavoro, visto che comunque il tasso di disoccupazione è salito di 0.2 punti percentuali.
Anche il rapporto sull'occupazione pubblicato venerdì con grande attenzione dal Dipartimento del Lavoro ha mostrato che i salari sono aumentati moderatamente lo scorso mese. Il balzo del tasso di disoccupazione, dopo essersi mantenuto al 3,7% per tre mesi consecutivi, riflette un ulteriore calo dell’occupazione delle famiglie. Possibile quindi che anche il prossimo dato sui consumi sia in raffreddamento. Il rapporto contrastante ha aumentato le probabilità che la Federal Reserve tagli i tassi di interesse entro giugno.
I dati sembrano supportare le attese degli investitori di una prima riduzione dei tassi a giugno. Anche se ai funzionari della Fed piace dire che fa poca differenza per l’economia se ritardano qualsiasi decisione da una riunione a quella successiva, in realtà non è così. Il rischio è quello che vede una Fed che ritarda troppo il taglio dei tassi e innesca una flessione vigorosa all’economia, ma anche quello che di allentare troppo presto le condizioni del credito e di rinvigorire l’inflazione.
I mercati azionari continuano ad aggiornare nuovi massimi. CI siamo quindi chiesti se ai livelli attuali gli investitori vengono adeguatamente ricompensati per aver sostenuto una maggiore volatilità. In altre parole se il premio per il rischio sia adeguato.
Nonostante i recenti e ampi movimenti dei rendimenti a reddito fisso, la storia a lungo termine dei mercati dei tassi di interesse mostra che le azioni tendono ad essere molto più volatili delle obbligazioni. Le ipotesi del mercato dei capitali solitamente utilizzate nel processo di asset allocation aiutano a determinare le ponderazioni delle classi di attività del portafoglio e riflettono questa relazione storica. Per questo motivo, i portafogli conservativi in genere hanno una maggiore esposizione alle obbligazioni rispetto alle azioni.
I titoli del Tesoro statunitense, essendo garantiti dalla piena fiducia e dal credito del governo americano, sono spesso percepiti come una buona approssimazione di un titolo privo di rischio (in termini di probabilità che il capitale e gli interessi vengano pagati per intero). Naturalmente, i titoli del Tesoro che non sono detenuti fino alla scadenza sono soggetti alla volatilità poiché i tassi di interesse salgono e scendono e, proprio come qualsiasi altra obbligazione, i prezzi si muovono in funzione di questi.
Per cercare di rispondere occorre rifarsi al concetto di Equity Risk Premium (ERP) per vedere se questo ci aiuta a porre la domanda nella giusta prospettiva. L’ERP, nella sua interpretazione più elementare, afferma che, data la maggiore volatilità dei prezzi delle azioni, il rendimento degli utili sull’S&P 500 dovrebbe essere superiore al rendimento di un titolo del Tesoro statunitense. Il rendimento degli utili dell'S&P 500 viene calcolato dividendo gli utili stimati per azione di questo indice a grande capitalizzazione, per il livello di prezzo corrente dell'indice.
Nel momento in cui scriviamo, divideremmo la nostra stima dell’utile per azione del 2024 sull’indice, 230 dollari, per il livello attuale dell’S&P 500, ovvero 5.145 punti. Ciò ci dà un rendimento degli utili del 4,5% (l’ERP è l’inverso del P/E, o rapporto prezzo-utili), mentre il rendimento dei titoli del Tesoro a due anni è del 4,7%.
Sulla base di questa interpretazione, sembrerebbe che gli investitori non siano quindi adeguatamente compensati per aver dovuto farsi carico della maggiore volatilità delle azioni poiché il rendimento degli utili sull’S&P 500 è inferiore al rendimento dei titoli del Tesoro a due anni. E questo rende l’ERP negativo.
E mettere a confronto le statistiche attuali dell'ERP con la storia non farà sentire meglio nessuno. I dati di Bloomberg mostrano che dal 1° gennaio 1998, l’ERP medio è stato del 3% utilizzando il rendimento dei titoli del Tesoro a due anni. Ciò significa che l’attuale ERP negativo è inferiore di oltre il 3 punti percentuali alla media di lungo termine.
Gli investitori possono discutere su quale potrebbe essere un ERP adeguato in un dato contesto economico e di valutazione, ma è difficile concludere che, sulla base della metodologia ERP, gli investitori vengono adeguatamente compensati per avere l’S&P 500 ai livelli attuali. Un ERP positivo del 3% sarebbe raggiunto con una crescita del 60% dagli attuali livelli di utile.