Questa settimana i mercati azionari si sono mossi all’insegna di brusche oscillazioni al rialzo e al ribasso, muovendosi in modo totalmente casuale e rifiutando furiosamente tutte le forme di supporto da governi e banche centrali.
A questo punto nessuno può davvero spiegare perché i mercati si stiano comportando così e quale potrebbe essere la mossa successiva. L’unica cosa che possiamo dire è che la volatilità elevata è un male, che essa sia positiva o negativa.
Gli indici azionari USA continuano a determinare il sentiment globale. Giovedì Dow (-3,58%), S&P500 (-3,39%) e Nasdaq (-3,10%) sono precipitati di nuovo, facendo sprofondare le borse asiatiche venerdì. Il Nikkei è scivolato del 2,72%, mentre ASX 200 e CSI 300 hanno ceduto rispettivamente il 2,81% e l’1,62%.
Anche FTSE (-1,95%) e DAX (-2,20%) si preparano a perdite pesanti in avvio di seduta.
Le vendite hanno un nome: coronavirus, di nuovo. Le infezioni registrate sono quasi 100.000 e ancora nessuna notizia positiva su un vaccino. Nel frattempo, il virus continua a mietere vittime, con i primi decessi annunciati nel Regno Unito e in Svizzera, e a paralizzare la vita altrove. In Italia, scuole e uffici sono chiusi e alle persone si chiede di lavorare da casa.
Annullamenti di vacanze in massa, un significativo calo dei viaggi in generale e l’apprensione dovuta all’inceppamento delle catene di fornitura e alle voci secondo cui la Cina potrebbe mentire sulla ripresa delle attività spiegano perché questa volta la questione va oltre il controllo di governi e banchieri centrali.
I capitali verso i beni sicuri si riversano su oro, yen e franco svizzero.
L’oro si sta preparando alla settimana migliore dal 2016. Il metallo prezioso viene scambiato a $1680 all’oncia e il rafforzamento del momentum positivo potrebbe incoraggiare un ulteriore rialzo verso la soglia a $1700. L’oro, tuttavia, non è prova di virus. Stanno aumentando i lunghi speculativi sull’oro e la scorsa settimana abbiamo visto che la correlazione negativa fra oro e asset rischiosi potrebbe interrompersi improvvisamente, nel momento in cui chi detiene i lunghi speculativi ritenesse che è ora di incassare i profitti.
Il greggio WTI rimane nelle mani degli orsi, anche dopo la decisione dell’OPEC di tagliare la produzione di altri 1,5 milioni di barili al giorno. L’accordo, però, è vincolato all’approvazione della Russia. Tutti gli occhi ora sono puntati sulla decisione finale che arriverà dall’odierna riunione del gruppo OPEC+. La notizia di un possibile taglio del valore di 1,5 milioni di barili al giorno non ha innescato un movimento al rialzo nei prezzi del petrolio; ciò è dovuto sicuramente al fatto che gli investitori sono scettici sulla reazione russa alla proposta. Nessun investitore vuole giocare alla roulette russa in un contesto di mercato così volubile, soprattutto visto che le probabilità che la Russia ponga il veto a nuovi tagli sono relativamente elevate. In tal caso, il prezzo al barile potrebbe precipitare verso i $40. Se, invece, la Russia accettasse l’accordo, l’intervento dell’OPEC+, che va oltre le stime degli analisti, potrebbe far salire il WTI verso i $50 al barile.
Sui mercati valutari, il dollaro USA continua a sanguinare. Il dato sugli ordinativi alle fabbriche, pubblicato ieri, ha mostrato una contrazione dello 0,5% a febbraio, più del -0,2% previsto dagli analisti e a fronte del +1,9% del mese precedente. Nel quarto trimestre, la produttività del lavoro nelle aziende non agricole è cresciuta dell’1,2% a/a, meno dell’1,4% stimato dagli analisti, e nello stesso periodo la produttività del manifatturiero è diminuita dello 0,8%. La produttività complessiva è cresciuta al ritmo maggiore dal 2010, compensando un po’ lo shock da coronavirus sulla produzione, ma gli investitori non erano dell’umore giusto per trovare un aspetto positivo.
Il dato sulle buste paga non agricole in uscita oggi frenerà le vendite sul dollaro USA oppure continuerà a indebolire il biglietto verde. Gli analisti prevedono 175.000 nuovi posti di lavoro nel settore non agricolo a febbraio, meno delle 225.000 del mese precedente. Un dato debole dovrebbe rafforzare le colombe della Federal Reserve (Fed) e pesare sul dollaro USA. Invece una lettura sopra le 200.000 unità per il secondo mese consecutivo dovrebbe inviare un segnale rassicurante agli investitori e innestare una ripresa dei rendimenti USA, ma potrebbe non riuscire a invertire la solida flessione che tiene conto di un ulteriore e più marcato taglio del tasso dalla Fed già questo mese.
Il rendimento dei decennali USA è precipitato allo 0,83%. Ora l’attività nei mercati dei titoli sovrani USA suggerisce una probabilità dell’84% di un altro taglio di 50 punti base alla riunione del FOMC del 15-16 marzo, e una probabilità del 16% di una sforbiciata da 75 punti base.