Un mondo senza Buy Back

Pubblicato 10.04.2019, 09:33
Aggiornato 09.07.2023, 12:32

Sono ormai anni che sul mercato azionario americano (e non solo) si è diffusa una moda chiamata “buy back azionario”. Tale pratica consiste nel riacquisto da parte delle società delle proprie azioni (spesso indebitandosi) allo scopo di ridurre il numero di azioni in circolazione ed aumentare il c.d. EPS (earning per share o utile per azione).

Recentemente questa pratica è sempre più sotto la lente dei regolatori ed oggetto di dibattito politico. Secondo alcuni, essa sarebbe un modo artificioso (ma molto efficace) per manipolare i dati del mercato, creando anche squilibri importanti tra domanda effettiva di azioni e domanda potenziale.

Su questo tema Goldman Sachs ha recentemente condotto uno studio i cui risultati sono a dir poco preoccupanti.

Lo studio dimostra che, nei fatti, sono state le stesse corporate USA a spingere al rialzo i listini Americani. In loro assenza non avremmo mai assistito a tali rally.No alt text provided for this image
Dal 2010 le aziende USA quotate a Wall Street hanno acquistato in media 420 miliardi di USD all’anno di azioni. Tale numero si contrappone ad una media di acquisti di 10 miliardi posta in essere da ciascuna delle seguenti classi di investitori: Retail, mutual funds, pension funds ed investitori esteri. La media di 10 mld tiene conto, ovviamente, anche dei flussi negativi di questi investitori che al contrario non si riscontrano nei flussi delle aziende.
Il rapporto tra flussi delle aziende e flussi del “vero mercato” e’ pari a 10-1.

Con tali numeri, risulta quindi piuttosto semplice poter immaginare cosa potrebbe accadere se per motivi regolamentari o politici si decidesse di abolire tale prassi consolidata o quanto meno limitarne le tempistiche (solo in determinati periodi dell’anno) o l’entita’ (in relazione al capitale sociale detenuto).

Un assaggio di cosa potrebbe accadere in caso di assenza di buy back è facilmente riscontrabile se analizziamo come si comportano i listini nel c.d. black-out period, intervallo di 5 settimane che precede la pubblicazione dei risultati in cui le aziende non possono porre in essere operazioni di buyback azionario. Lo studio di GS evidenzia che in tale periodo si assiste generalmente ad un aumento della dispersione dei rendimenti e ad un aumento della volatilita’. In sostanza, i buy back azionari non solo sostengono le azioni decretandone il rialzo nel tempo, ma ne riducono la volatilità e la dispersione dei rendimenti. Creano, in sostanza, lo scenario “quantitativo ideale”, quello adorato dagli algoritmi di trading, caratterizzato da azioni che salgono con bassa volatilita’ e dispersione dei rendimenti.


Altro effetto collaterale della “medicina dei buy back” è la differenza che essa produce tra crescita degli utili e crescita degli EPS. Nel corso degli ultimi 15 anni la pratica del riacquisto di azioni proprie ha “gonfiato” di 260 basis point la crescita degli EPS rispetto alla crescita degli utili riportati dalle societa’. Di fatto, questa pratica ha distorto anche le valutazioni azionarie che tipicamente vengono espresse in termini di P/E prendendo al denominatore proprio l’EPS.

La questione sui buy back azionari sta diventando sempre più attuale e sempre piu’ dibattuta. Qualsiasi provvedimento diretto a limitarne l’attuazione avrebbe un forte impatto sui mercati, soprattutto nella situazione attuale in cui, secondo le statistiche di GS le azioni rappresentano il 44% dei portafogli degli investitori retail e professionali.

Riteniamo sia prudente ed estremamente importante seguire l’evolversi di questo tema date le importanti ripercussioni che potrebbe avere sui mercati azionari.

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