Il ricorso ai buyback, strumento che divide gli analisti, continua a crescere anche oltre i confini degli Stati Uniti. In cinque anni, fino al 2022, le società dell’indice S&P 500 hanno speso 3.900 miliardi di dollari in buyback di azioni proprie. Questa cifra supera i 2.500 miliardi di dollari versati in dividendi nello stesso periodo.
A tirare le somme è Harry Goodacre, strategist della Strategic research unit di Schroders PLC (LON:SDR), secondo cui questa tendenza, che si è diffusa anche in Regno Unito, Europa e Giappone, potrebbe rappresentare “un vento favorevole per la domanda di azioni e una spinta meccanica per i numeri degli utili per azione”.
Tuttavia, il buyback di azioni proprie rimane un argomento controverso. Da un lato, sottolinea Goodacre “rappresenta un modo per il management di restituire agli azionisti la liquidità in eccesso in modo meno vincolante rispetto a un aumento dei dividendi. Inoltre, può essere più efficiente dal punto di vista fiscale per gli investitori, in quanto le plusvalenze sono spesso tassate a un’aliquota inferiore rispetto al reddito. D’altro canto, il fatto che si prestino a manipolazioni da parte del management può essere un aspetto critico. Un aumento dei buyback può anche segnalare l’assenza di opportunità di investimento redditizie per la società in questione. Quindi, più che un dato positivo, potrebbe essere interpretato come un dato negativo”.
Ma le aziende non sembrano dare credito a quest’ultima ipotesi. In base ai dati di Schroders, il 45% delle grandi società statunitensi, infatti, ha riacquistato almeno l’1% delle proprie azioni nel corso del 2022 (al netto delle azioni emesse). Dato sostanzialmente in linea con la media dei tre anni precedenti al Covid.
Il segnale più rilevante, però, è quello che arriva dalle aziende britanniche che l’anno scorso hanno quasi eguagliato gli Stati Uniti. “La percentuale di società britanniche che hanno riacquistato almeno l’1% delle proprie azioni è salita a un livello record nel 2022. Anche le società giapponesi, francesi e tedesche hanno registrato un aumento dell’attività di buyback”, rimarca lo strategist.
Meno comuni, invece, i buyback tra le aziende più piccole. “Queste sono meno propense a intraprendere attività di buyback e più propense a emettere nuove azioni rispetto alle società più grandi. In genere, le imprese più piccole crescono più rapidamente e quindi hanno potenzialmente bisogno di capitale aggiuntivo. Questo potrebbe anche spiegare perché le società dei mercati emergenti sono state meno propense ai buyback”, spiega Goodacre.
Altra conseguenza negativa alimentata dal buyback al pari del delisting è la sottrazione di capitale su cui investire ai mercati pubblici. “In 12 mesi, fino a luglio 2023, l’offerta netta di azioni è stata negativa negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Giappone, Francia e Germania. Con il ritmo di “de-equitisation” maggiore nei mercati non statunitensi rispetto agli Stati Uniti”. Un fenomeno che secondo l’analista di Schroders si può spiegare con le fusioni e acquisizioni. “Ad esempio, le società britanniche sono state scambiate a sconto rispetto alle società statunitensi, rendendole interessanti obiettivi di acquisizione sia per le società statunitensi che per il private equity”.
Dopo l’aumento significativo del ricorso ai buyback registrato nel 2022, adesso bisogna capire se il fenomeno continuerà negli anni a venire. "Con i tassi d’interesse globali che si prevedono più alti più a lungo e una prospettiva di crescita ancora debole, le aziende avranno molto da considerare. Dovranno capire come utilizzare l’eventuale liquidità in eccesso, fino a che punto i loro prezzi azionari appaiano convenienti e se la flessibilità dei buyback sia più interessante dei dividendi in un contesto di incertezza”, commenta Goodacre.
Aspetti controversi a parte, secondo l’esperto di Schroders, anche gli investitori dovranno tenere d’occhio la crescente popolarità dei buyback al di fuori degli Stati Uniti. “Gli acquisti societari, sia attraverso i buyback sia attraverso le fusioni e le acquisizioni, hanno il potenziale per sostenere i prezzi delle azioni”. Inoltre, conclude lo strategist, “finché le società non statunitensi continueranno a essere scambiate con ampi sconti di valutazione rispetto alle loro omologhe statunitensi, è probabile che figurino in primo piano nelle liste dei potenziali obiettivi di acquisizione”.
Per approfondire, ecco un articolo che spiega cosa sono i dividendi.