Ieri la produzione industriale dell’Europa MoM di ottobre è stata rivista al ribasso (-2% contro -1,5 stimato e +0,8% di settembre), segnale che nonostante il calo del prezzo del gas del 12,9% in ottobre, l’inflazione si è ben radica nei diversi settori produttivi e dei servizi e che l’aumento dei tassi di interesse comincia ad avere effetti sugli investimenti delle imprese.
Ieri è stato anche il giorno della FED in cui Powell ha deciso un ulteriore aumento di 50 bp dei tassi di interesse portandoli al 4,25-4,5%, livello più alto degli ultimi 15 anni. Si tratta del settimo rialzo dei tassi consecutivo. Per capire la delicatezza della situazione attuale, basti dire che negli ultimi 22 anni la FED non aveva mai alzato i tassi al termine di un meeting di oltre 25 bp. Nel 2022, è accaduto ben cinque volte, con quattro rialzi di 75 punti base e questo di 50 punti. I tassi d’interesse erano stati abbassati allo 0-0,25% nel marzo del 2020, per contrastare gli effetti negativi della pandemia e poi progressivamente alzati quest’anno, per contrastare l’inflazione.
Del resto, i dots indicano una stretta più lunga e un tasso di arrivo più elevato di quanto previsto fino a settembre. La mediana delle proiezioni indica per fine del 2023 un tasso sui Fed funds del 5-5,25%, quindi 75 punti base in più rispetto al livello attuale (4,5-4,75% indicato a settembre). A fine 2024, la mediana è pari a al 4-4,25% (contro il precedente 3,75-4%) e a fine2025 al 3-3,25% (precedente 2,75-3%.
Secondo Powell la politica monetaria attuale non è ancora sufficientemente restrittiva e nel 2023 alzerà ancora i tassi (la misura dipenderà dai dati). La domanda è per quanto tempo la politica monetaria rimarrà restrittiva e quindi quanto il PIL si ridurrà. Secondo Powell nel 2023 e 2024 l’economia USA frenerà la sua crescita, ma non entrerà in recessione, nonostante la disoccupazione sia prevista in crescita al 4,6% (3,7% in novembre)
Anche dalla BCE gli investitori si attendono oggi un aumento di 50 bp. Tuttavia, per portare velocemente l’inflazione, che ricordiamo a novembre è stata del 10%, nell’intorno dell’obiettivo del 2% occorrerebbe un aumento maggiore e almeno di 75 bp.
E visto che al momento la recessione ancora in Europa non si vede, il sistema economico potrebbe anche reggere aumenti più consistenti di 50 bp, a patto però che si decida di guidarlo dentro una recessione che, in quanto a durata e profondità, potrebbe anche essere più grave delle attese.
La BCE appare più indietro della FED nella lotta all’inflazione e i dati lo dimostrano. Di fatto l’Europa sta facendo molta più fatica a portare sotto controllo la crescita dei prezzi. E dire che basterebbe uno sforzo congiunto dei governi per riportala vicino all’obiettivo (leggi accordo sul price-cap per il gas). La BCE sta facendo la sua parte alzando i tassi di interesse, ma i governi sono invece ancora in alto mare nel definire un tetto al prezzo del gas (il meeting di ieri è finito con un nuovo nulla di fatto), nonostante la Von Der Leyen abbia dichiarato che entro fine anno sarà operativo un price cap. Vedremo.
In Europa c’è un rischio in più rispetto agli USA: il non accordo o peggio un brutto accordo sul prezzo del gas. Il rischio è che l’inflazione scenda molto più lentamente delle attese e questo le consenta di infiltrarsi stabilmente in tutti i settori produttivi e, anche se i governi non ne vogliono sentir parlare, scateni la spirale salari/prezzi.
Se esite un rischio supplettivo i mercati lo includono nei prezzi chiedendo un maggiore rendimento che, a parità di tutte le altre condizioni, si verifica solo comprando a prezzi più bassi. E quindi i mercati scendono. Facile quindi capire come l’accordo sul prezzo del gas sia di vitale importanza per l’Europa.