L’intervista al Future of Everything Festival organizzato dal Wall Street Journal era molto attesa. Alla fine però il presidente della Fed non ha aggiunto nulla di nuovo a quanto già si sapeva: i tassi continueranno ad aumentare ed anche velocemente fintanto che l’inflazione non mostrerà segnali chiari e convincenti di flessione verso un livello sano. Dalla stretta monetaria Powell si aspetta un atterraggio morbido dell’economia che non dovrebbe quindi soffrire più di tanto. Il presidente ha ribadito il suo impegno ad avvicinare la crescita dei prezzi all’obiettivo del 2%, avvertendo che questo potrebbe non essere facile e aumentare la disoccupazione.
…non sempre
Quindi la FED sembra disposta ad accettare una recessione che comporti anche un tasso di disoccupazione più elevato di quello attuale. Da capire se un aumento della disoccupazione possa essere in grado di raffreddare la crescita dei salari, di fronte ad una flessione strutturale degli occupati. Il cambiamento, se vogliamo, potrebbe essere nei toni, che a nostro avviso sono stati molto più risoluti che in passato.
Non siamo d’accordo con Powell…
Non crediamo nel soft landing (nonostante i dati sulle vendite al dettaglio e la produzione industriale di aprile siano stati migliori rispetto alle stime degli analisti) e mi sembra che non ci credano nemmeno i mercati. Ci limitiamo ad osservare che già nel primo trimestre del 2022 il PIL è sceso dell’1,4% (le stime indicavano una crescita dell’1,1%) che non include però gli effetti economici netti della guerra, difficilmente quantificabili. Da una parte infatti la strozzature della catene di approvvigionamento, unite ad una elevata inflazione giocano contro la ripresa economica, ma è innegabile che un aumento della produzione di armamenti e la vendita di gas all’Europa a prezzi più elevati rispetto a quelli medi degli ultimi sei mesi giochino invece a favore. Valuteremo nel secondo trimestre l’andamento dei conti.
…anche perché l’inflazione è da costi
Ma non siamo d’accordo con Powell anche perché, come noto, una buona parte dell’inflazione è da costi, contro la quale la politica monetaria ha le armi spuntate. Il risultato, nella peggiore delle ipotesi, potrebbe quindi essere una riduzione dell’attività complessiva dovuta al maggior costo del denaro, con un’inflazione che mostra evidenti segnali di resistenza alla discesa. Se non è stagflazione, poco ci manca.
Alla fine si dovranno fare i conti con il denaro più caro
In un primo momento i mercati azionari hanno apprezzato le parole di Powell allungando i rialzi (minore incertezza sulle mosse della FED significa minor rischio). Subito dopo però si è cominciato a fare i conti con il costo del denaro più caro di 1 punto percentuale. Secondo il nostro modello, se la flessione del PIL dovesse portare il paese in recessione o peggio in stagflazione, l’indice S&P 500 potrebbe subire un’ulteriore flessione compresa tra il 10% e il 15% dai valori attuali (la variazione dipende dalla profondità e dall’ampiezza della recessione).
A tassi reali negativi, meglio le azioni
In questi casi la strategia è quella di privilegiare l‘investimento in azioni (fintanto che i tassi di interesse reale rimarranno negativi) di quelle aziende in grado di pagare un dividendo sostenibile nel lungo periodo. Ovvero quelle che, pur in presenza di un forte rallentamento economico o peggio di una recessione, sono in grado di aumentare il flusso di cassa garantendo così un rendimento complessivo soddisfacente comparato con il rischio supportato.