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Non è guerra valutaria. Ne siamo sicuri?

Pubblicato 21.02.2013, 09:04
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Tutto è partito dalla sterlina inglese.

Dopo la pubblicazione dei dati sulla disoccupazione, presentati in peggioramento con una percentuale di persone disoccupate rispetto a quelle che stanno cercando attivamente lavoro al 7.8% (vs 7.7% atteso), e delle minute dell’ultima riunione tenuta dalla Bank of England lo scorso 7 febbraio, abbiamo assistito ad un sell off molto forte sul pound, che, come vedremo, ha innescato dei forti acquisti globali sul dollaro americano.

Ma procediamo per punti. Perché un movimento così forte della sterlina inglese? Nelle minute, oltre ad aver dipinto lo stato dell’economia come ancora in difficoltà, tre dei nove membri che compongono il direttivo della BoE si sono espressi a favore di un aumento del piano di Quantitative Easing da 375 a 400 miliardi di sterline.

Questo significa un sentiment di potenziale cambiamento di politica monetaria, che andrebbe ad incrementare la quantità di sterline in circolazione diminuendo il valore intrinseco della moneta, che non ha aspettato ed ha cominciato subito ad essere venduta da investitori che sul pound sono negativi già da tempo.

Lo Speculative Sentiment Index ci indicava un aumento dei posizionamenti long da parte dei trader non istituzionali di circa il 30% durante l’ultima settimana, il che ha fatto comprendere come la grossa quantità di stop loss posta sotto i maggiori livelli di attenzione tecnica (1.5400 sopra tutti, che ha vissuto degli attimi di resistenza da parte dei compratori, prima di lasciare spazio alla discesa giornaliera più ingente degli ultimi tempi) potesse, in via potenziale, far partire movimenti ribassisti una volta colpiti gli ordini di vendita per proteggere i posizionamenti lunghi.

SSI index
E questo è proprio quello che è successo, ma non nella misura attesa.

Ci si poteva infatti attendere dei movimenti ribassisti che vedevano l’area compresa tra 1.5280 e 1.5240 come potenziale target di arrivo in caso di salto dei supporti, ma il fatto che si siano nominati temi di politica monetaria quando le aspettative su di essa risultavano abbastanza ben ancorate, ha prodotto discese più consistenti che hanno portato i prezzi fino al raggiungimento di 1.5140 (non è stato soltanto questo il motivo, a nostro parere, anche la Federal Reserve ha dato una mano, come vedremo tra poco).

Già nella notte la RBNZ (banca centrale neozelandese), tramite il proprio governatore Wheeler, si era pronunciata sull’eccessiva forza della valuta domestica, innescando vendite di Nuova Zelanda e corrispondenti acquisti di dollaro americano, il che ci ha confermato come le valute, in questo delicato momento storico-economico, siano pronte a reagire secondo i fondamentali macroeconomici, risultando molto sensibili soprattutto a notizie riguardanti le politiche monetarie dei diversi Paesi del Mondo ed ai dati di fiducia ed occupazione.

Politiche monetarie che sembravano in discussione, per i mesi a venire, soltanto sul fronte asiatico, inteso in senso lato, con l’Australia che si è pronunciata su possibili tagli di tassi con motivazioni macroeconomiche pure (anche se erano arrivati commenti velati da parte della RBA sulla forza del dollaro australiano) e con la Cina alla ricerca di un fine tuning al fine di garantire crescita economica sostenibile.

Invece, dopo il G20 nel quali si è smentito di trovarsi di fronte ad una guerra valutaria, sono arrivate dichiarazioni che mettono in discussione le aspettative monetarie dei maggiori investitori mondiali, che di fronte a questa rinnovata incertezza, hanno deciso di iniziare a ribilanciare i propri portafogli carichi di rischio. Si è partiti, come detto, dal neozelandese, che pareva un caso isolato, e dalla sterlina inglese, per poi procedere velocemente con liquidazioni di posizioni legate al rischio su tutti i fronti, con il dollaro australiano che è andato a seguire i movimenti innescatisi e con le materie prime che non hanno tardato a fare lo stesso.

Le borse europee inizialmente sono riuscite a tenere abbastanza bene i livelli raggiunti durante l’ultima seduta, ma quando le vendite di rischio si sono intensificate, andando a far corrispondere ad esse acquisti di dollaro americano a livello globale, hanno rotto i supporti cominciando discese importanti che hanno portato a chiusure fortemente negative. Infine è arrivata la Fed.

Nelle minute pubblicate ieri in serata si è commentata una situazione che vede l’espansione economica rallentata ma la crescita, seppur moderata, della domanda aggregata interna.

Alcuni membri del FOMC si sono pronunciati a favore di un interrogazione da effettuarsi sul piano dell’andamento puro dell’economia e su un analisi del rapporto costi/benefici delle politiche monetarie espansionistiche in atto, in quanto gli 85 miliardi di acquisti di titoli stanno a loro parere portando ad instabilità dei mercati finanziari, per cui esse andrebbero continuate soltanto se i piani di analisi citati dovessero farlo ritenere opportuno.

La goccia che serviva per far traboccare il vaso, anzi, i vasi.

Le borse Americane, che avevano fatto attendere aperture negative grazie all’andamento dei futures hanno effettuato, sono state vendute a mani basse, il che ha portato all’approfondimento di tutti i movimenti partiti in mattinata sul fronte valutario e delle materie prime ed ha incrementato ulteriormente gli acquisti di dollaro americano, che sta dando prova di riuscire ancora a catalizzare i flussi di capitali, nel momento in cui le attese di medio periodo risultano essere messe in discussione.

Anche l’oro, che durante gli ultimi mesi ha abbandonato il ruolo di bene rifugio a causa delle inflazioni in rallentamento a livello globale e della salita che abbiamo visto sulle borse americane, è stato venduto di fronte a queste novità, andando a toccare livelli davvero preoccupanti e che potrebbero portare al raggiungimento di lidi ancor più lontani, nel caso si intensificassero le vendite di rischio.

Questo disallineamento delle politiche monetarie, in atto e potenziali, sembra dunque essere il motivo principale dei movimenti cui abbiamo assistito.

La Federal Reserve potrebbe procedere ad irrigidire la propria politica monetaria, La RBNZ si è pronunciata sull’eccessiva forza della valuta domestica, così come la RBA che oltre a questo potrebbe allentare la stratta monetaria tramite un taglio di tassi.

Il Giappone lo sappiamo, ha intenzione di procedere ad iniezioni di liquidità per contrastare la deflazione (leggasi indebolire lo yen) e la Swiss National Bank ha ribadito ieri la volontà di difendere il Peg a 1.2000 tra euro e franco.

Non siamo di fronte ad una guerra valutaria, mavà… e l’euro in tutto questo? La moneta unica europea, se paragonata alla sterlina inglese, allo yen giapponese (già in chiave svalutativa da tempo) ed al dollaro australiano, dopo aver rotto a ribasso 1.3380 (che ha fornito come visto ieri un segnale ribassista) è andata a scendere raggiungendo i target in area 1.330, che hanno tenuto abbastanza bene fino a quando la Federal Reserve si è pronunciata.

Questo testimonia, a nostro parere, come l’Euro sia in posizione di forza relativa rispetto alle altre valute proprio a causa del fatto che esso non sia sceso come quest’ultime sulle prime vendite di rischio innescatesi, ma ha dovuto aspettare un potenziale cambio di posizione da parte degli Stati Uniti.

Il risultato di tutti questi movimenti interconnessi ha portato il DJ FXCM Dollar Index (che a differenza del dollar index classico contempla al suo interno, con un peso iniziale paritetico del 25%, lo yen, la sterlina, l’euro ed il dollaro australiano, a compiere i massimi assoluti da due anni a questa parte e se osserviamo un grafico a 4 ore risulta chiaro come la rottura a rialzo della bandiera rialzista individuata nei giorni scorsi abbia portato a buone opportunità operative, che sono migliorate ulteriormente dopo la rottura dei massimi assoluti.

USdollar index

Matteo Paganini
Senior DailyFX Analyst


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