MILANO (Reuters) - Nel processo d'Appello sul cosiddetto "caso Ruby" che vede Silvio Berlusconi imputato di concussione e prostituzione minorile, la difesa ha detto che l'ex premier non sapeva che la ragazza fosse minorenne e ha definito un "mostro giuridico" l'accusa di concussione mossa a Berlusconi, aggiungendo che la richiesta del procuratore generale di confermare la condanna a 7 anni per l'ex premier si basa non su prove ma su "opinioni".
Nella sua arringa Franco Coppi, uno dei legali di Berlusconi, ha detto che "Silvio Berlusconi non sapeva che Ruby fosse minorenne e che la parentela con [l'allora presidente egiziano Hosni] Mubarak era una palla solenne".
Secondo Coppi, la presunta bugia di Berlusconi sulla parentela tra la ragazza e Mubarak "avrebbe avuto le gambe cortissime perché, quando chiamò in Questura, lui sapeva benissimo che erano in corso accertamenti sull'identità della ragazza e quindi sarebbero bastati pochi minuti per accertare la verità".
In precedenza il suo collega, Filippo Dinacci, ha definito un "mostro giuridico" pensare che solo perché "un soggetto riveste un rilievo politico e fa una telefonata significa costringere qualcuno... qui dove sta la costrizione? Ci vuole un minimo di condotta che faccia scattare un timore in chi viene chiamato, altrimenti non si può parlare di concussione".
UN PROCESSO IMPORTANTE PER IL FUTURO POLITICO DI BERLUSCONI
Il processo - che vedrà i giudici in camera di consiglio dal prossimo 18 luglio - ha un'importanza cruciale per il destino politico del leader di Forza Italia, perché in caso della conferma della condanna in appello e anche in Cassazione, l'ex premier perderebbe il beneficio dell'indulto di cui gode per la condanna definitiva sui diritti tv Mediaset e dovrebbe scontare una pena complessiva di 10 anni, con lo spettro della detenzione domiciliare e non più dell'affidamento ai servizi sociali.
Venerdì scorso, il pg Piero De Petris ha chiesto di confermare la condanna a sette anni inflitta in primo grado a Berlusconi lo scorso anno, dopo aver detto che l'ex premier telefonando alla Questura di Milano nel maggio 2010 per sollecitare il rilascio di Ruby commise un "abuso colossale".
Nella sua arringa, Dinacci ha chiesto inoltre che le intercettazioni usate come prove nel procedimento siano dichiarate "inutilizzabili", perché, secondo il codice, non si potevano disporre per il reato di induzione alla prostituzione, come invece è stato fatto dagli inquirenti.
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