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Aria di sell-off

Pubblicato 05.09.2024, 08:19
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Comincia la giornata come se avesse uno scopo” (Will Smith)

Aria di sell-off. La maggior parte degli operatori è convinta che il mese di settembre sia destinato a essere un mese negativo per i mercati finanziari. L’inizio è stato anche peggiore di quello di agosto, con l’ondata di vendite a Wall Street nella prima seduta post festività del Labour Day, in particolare Nvidia, -10%. Il prezzo del petrolio è un buon indicatore di ciò che sta accadendo: superata verso il basso la soglia di $70, si aprono spazi di ribasso inesplorati, almeno nel breve termine, se questa dovesse essere la chiusura settimanale o mensile. La paura di una recessione più forte del previsto resta il principale catalizzatore del ribasso. Un evento che coglierebbe di sorpresa sia le banche centrali, sia gli investitori, che non hanno incorporato nelle stime un drastico calo dei profitti. Stesso discorso per il prezzo dell’oro, stabilmente sui massimi storici, oltre la soglia di $2.500, e del Bitcoin, sceso nuovamente sotto i $60mila, a dimostrazione del clima di risk-off. L’orizzonte è quindi quello di un rallentamento economico “vero”, ovvero di almeno tre trimestri consecutivi negli USA, nel corso del 2025. Il rendimento del decennale statunitense è sceso fino al 3,8%, trascinando con sé sia il Bund tedesco sia il BTP italiano, sceso al 3,6% (a fronte di un leggero aumento dello spread). Piazza Affari, nonostante le turbolenze globali, non si allontana molto dalla soglia dei 34mila punti. Una forza legata alla rotazione settoriale in atto tra i titoli esposti al rialzo dei tassi verso quelli value, ovvero avvantaggiati dal clima di politica monetaria espansiva e poco esposti al ciclo economico.

Ma il cigno nero?

L’economia cinese è molto più a rischio di quella europea e statunitense, per quanto riguarda la recessione. Cosa impensabile fino a qualche anno fa, almeno prima del Covid, ma che inizia a diffondersi come prospettiva tra gli operatori di mercato. Il Governo cinese non sembra infatti impegnato a far ripartire l’economia, ma piuttosto a cambiarla, anche a costo di scelte incomprensibili per le regole classiche. Lo dimostrano gli interventi nel mercato mobiliare, dove si sta iniettando liquidità in modo incontrollato per far ripartire i consumi e salvare il sistema bancario. Iniziative “fai da te” per portare la crescita al +5%, una soglia psicologica che però non trova grande riscontro nella teoria economica occidentale. Più ci si allontana da tale livello, più i mercati si preoccupano, ma in realtà, nelle logiche del libero mercato, non sarebbe assolutamente drammatico. Nel frattempo, le principali banche d’affari hanno tagliato tutte le proprie stime ben al di sotto di questo livello, facendo temere il peggio. La Cina non rinuncia però al proprio modello, anche a costo di diventare come il Giappone con 30 anni circa di distanza, vittima della trappola della liquidità, dove si iniettano enormi quantità di denaro nel mercato dei capitali nella speranza che l’economia riparta, ma non riparte. I consumatori infatti invecchiano, hanno già fatto le spese della loro vita e risparmiano per paura del futuro.

Occhio agli emergenti

Negli ultimi dieci anni, il rafforzamento del dollaro statunitense ha avuto un impatto negativo sui mercati emergenti, sia per le azioni che per le obbligazioni in valuta locale. In particolare, nel settore del debito, gli interessi ottenuti dagli investitori sono stati spesso vanificati dal deprezzamento delle valute locali rispetto al dollaro. Anche il mercato azionario ha mostrato una sottoperformance significativa rispetto agli indici globali, con un gap del 50%. Secondo Erik Lueth, Global Emerging Market Economist di LGIM, questa discrepanza non è spiegabile con i fondamentali economici dei mercati emergenti, ma piuttosto con il ciclo economico del dollaro. Dal 2013, il dollaro ha attraversato un lungo periodo di apprezzamento, supportato dalle politiche monetarie della Federal Reserve (Fed). L’analisi mostra che i mercati emergenti tendono a performare meglio (crescita del 5,7%) quando il dollaro è debole, mentre crescono solo del 3,4% quando è forte. Inoltre, i Paesi che hanno adottato regimi valutari ancorati al dollaro subiscono un impatto ancora maggiore. Il rafforzamento del dollaro ha anche effetti negativi sulla domanda interna dei mercati emergenti, limitando consumi e investimenti. Allo stesso tempo, le loro valute si indeboliscono rispetto a quelle dei principali partner commerciali. Guardando al futuro, LGIM prevede che il possibile taglio dei tassi da parte della Fed, previsto per il 18 settembre e destinato a continuare nel 2024, possa portare a un deprezzamento del dollaro. Questo potrebbe rappresentare un punto di svolta per i mercati emergenti, favorendo un’inversione di tendenza dopo anni di sottoperformance. Le valutazioni attuali e l’attesa riduzione dei tassi creano opportunità di crescita per questi mercati, particolarmente se il ciclo del dollaro entra in una fase di debolezza.
 

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