Dove sono i lavoratori USA?
I dati relativi all’occupazione e ai salari sono quelli che la FED monitora molto attentamente. L’unemployment gap dovuto alla pandemia si è ormai chiuso e il tasso di disoccupazione staziona da un po’ di tempo nell’intorno del tasso naturale (stimato al 4% circa), confermando la flessione secolare del tasso di partecipazione al mercato del lavoro, sceso costantemente negli ultimi 20 anni dal 67,3% del 2000 al 61,6% del 2020. Inoltre, i salari negli ultimi 12 mesi sono cresciuti del 6% circa (calcolato utilizzando la parità del potere d’acquisto che tiene conto anche del costo della vita) e alla luce dell’inflazione che riduce il potere d’acquisto è prevedibile che le pressioni salariali si faranno sempre più concrete.
Prendiamo per esempio il settore leisure and hospitality, particolarmente toccato dalla pandemia, dove oggi mancano all’appello ancora 1,3 milioni di posti di lavoro rispetto al 2019. Con la graduale riapertura delle attività e degli spostamenti delle persone, la domanda di lavoro molto forte potrà incontrare l’offerta solo a salari crescenti, contribuendo a mantenere viva l’inflazione.
I sussidi sono spesso superiori ai salari
Un dato molto commentato sul mercato del lavoro americano è inoltre quello dei dimissionari: ad aprile scorso per esempio, il numero di coloro che hanno rassegnato le proprie dimissioni ha toccato un livello storicamente mai visto: 4 milioni di individui. Il dato potrebbe indicare un generale ottimismo da parte dei lavoratori sulla propria capacità di trovare un nuovo impiego, magari a condizioni migliori.
Questo non significa tuttavia che tutti i lavoratori che hanno lasciato il proprio lavoro l’abbiano fatto perché siano sicuri di trovarne uno migliore. Nonostante i sussidi straordinari alla disoccupazione siano finiti a metà settembre dello scorso anno, in molti settori i salari continuano ad essere inferiori ai sussidi statali ed è evidente che i lavoratori preferiscono rifiutare l’impiego. Per convincere i potenziali lavoratori ad accettare le offerte, le società devono quindi offrire stipendi sempre più alti.
L’inflazione USA non arriva dal caro energia, ma dai salari
E’ importante sottolineare che l’inflazione negli USA non ha come causa principale il prezzo dell’energia (gli USA sono autosufficienti da un punto di vista energetico), quanto piuttosto la dinamica salariale che per effetto della struttura del mercato del lavoro reagisce velocemente alla domanda e all’offerta. L’inflazione che il mercato del lavoro è in grado di generare apre la strada, come abbiamo visto, ad una crescita dei prezzi di vendita di beni e servizi che a loro volta influiscono sui costi di produzione di altri beni e servizi influenzandosi reciprocamente.
La soluzione appare più politica che economica
La soluzione per ridurre l’inflazione indotta dalla maggiore disponibilità salariale è quella di ridurre il loro potere d’acquisto, ma con le elezioni di midterm alle porte non credo che accadrà. Biden stesso rispondendo ad una domanda sulla mancanza di lavoratori ha suggerito una soluzione: pagateli di più. Diventa però poi sempre più difficile per la FED governare il sistema monetario avendo contemporaneamente come obiettivo la crescita economica, il controllo dei prezzi e l’occupazione.
Inflation linked: potrebbero garantire una buona protezione del capitale
In una fase di rialzo dei tassi progressiva come quella che probabilmente ci attende, specialmente se il livello dei tassi di interesse reali è rimasto negativo a lungo, è opportuno prediligere nel portafoglio titoli di Stato USA con una bassa duration o con elevato flusso cedolare, allungando opportunisticamente la duration marginale in momenti di elevata volatilità. Da non sottovalutare infine gli inflation linked: non conosciamo il livello di inflazione tra un anno, ma sappiamo con certezza che sarà superiore a quello pre-covid. Chiaro quindi che in un’ottica di medio termine, i titoli inflation linked possono garantire una buona protezione del capitale.