Tariffe e dazi USA: quale sarà il do ut des?

Pubblicato 27.01.2025, 08:35
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Amici miei, la storia è chiara: abbassare le tasse significa una maggiore libertà, e ogni volta che abbassiamo le tasse, la salute della nostra nazione migliora (R. Reagan).


Indice IFO di gennaio che, come noto, misura la fiducia delle aziende tedesche in uscita oggi alle 10.00 (stima 84.9 punti contro 84.7 di dicembre). In settimana è atteso (giovedì) il PIL del 4Q24 degli Stati Uniti, la cui stima preliminare è del +2.7% (+3.1% nel 3Q24).
 
I mercati finanziari si stanno preparando ad un aumento delle tariffe di importazione negli Stati Uniti, anche se abbiamo sempre di più la sensazione che gli imminenti aumenti tariffari saranno più un bluff che una reale minaccia. Siamo convinti, infatti, che alla fine le tariffe saranno più strategiche che universali, introdotte in modo graduale piuttosto che tutte in una volta e relativamente più basse rispetto a quanto inizialmente proposto (60% sulla Cina, 25% sui partner dell'accordo U.S.-Mexico-Canada, e tra il 10% e il 20% sul resto del mondo).
 
Inoltre, le tariffe vengono considerate come un incremento una tantum dei livelli di prezzo e con effetti più transitori che duraturi sull’inflazione. In questo contesto, Wall Street ha accolto con relativa tranquillità il discorso sulle tariffe, come dimostra il fatto che il target medio di fine anno per l’S&P 500 (6.614) tra gli analisti sell-side implica un rendimento superiore al 10% quest’anno.
 
Detto ciò, anche le nostre attese per il 2025 sono positive, anche se siamo convinti che quando si tratta di guerre commerciali di tipo "tit-for-tat" (do ut des), gli investitori dovrebbero prestare maggiore attenzione al “tat.” Quest’ultimo, ovvero come il resto del mondo risponde al protezionismo degli Stati Uniti, è un’importante incognita in questa fase. Crediamo che sia una variabile non pienamente scontata e potrebbe rivelarsi altamente distruttiva e costosa per le aziende statunitensi.
 
Il “Tat” potrebbe portare a maggiori interruzioni delle catene di fornitura globali con conseguente minore crescita degli utili aziendali, prezzi più alti per beni e servizi e maggiori aspettative di inflazione, ulteriori difficoltà per le banche centrali nel gestire i venti incrociati interrompendo il ciclo globale di allentamento economico e, in alcuni casi, recessioni vere e proprie in alcune economie fortemente dipendenti dal commercio (ad esempio Germania e Canada). Secondo Bloomberg, il Canada ha già preparato una lista di tariffe "tat" per un totale di 105 miliardi di dollari.
 
Oltre a quanto sopra, è probabile che questa volta sia parzialmente diverso rispetto al primo mandato di Trump, quando il mondo fu colto alla sprovvista dalle tariffe statunitensi e reagì in modo disorganizzato alle strategie commerciali americane. Il mondo appare oggi meglio preparato e in attesa.
 
Infatti, determinati a non essere colti di sorpresa una seconda volta, i governi di tutto il mondo stanno preparando le loro liste di potenziali tariffe su beni e servizi statunitensi. Con la storia come guida, si possono ipotizzare tariffe di ritorsione su prodotti agricoli statunitensi come soia, maiale, mandorle e grano (Cina). Oppure tariffe su automobili e macchinari, così come beni di consumo come whiskey e vino (Europa). Legname, petrolio greggio e gas naturale sono nella lista di alcune nazioni (Canada e Messico).
 
Alla fine, più alte saranno le tariffe statunitensi ("tit"), maggiore sarà la reazione del resto del mondo ("tat") e maggiori saranno i potenziali danni per la crescita e gli utili globali, inclusi quelli degli Stati Uniti. Il potenziale picco delle tariffe statunitensi appare letteralmente e figurativamente fuori scala rispetto agli ultimi otto decenni. E potrebbe non fermarsi alle sole tariffe su beni e servizi. Altre misure di ritorsione da parte del resto del mondo potrebbero emergere sotto forme differenti e altrettanto dannose. Si pensi a restrizioni sugli investimenti, che sono aumentate notevolmente nell’ultimo decennio. Oppure a indagini regolatorie mirate a specifiche aziende (liste nere) da parte di Europa e Cina, che rendono più difficile per le aziende statunitensi operare sia a livello nazionale che internazionale. Le aziende tecnologiche statunitensi per esempio sono al centro dell’attenzione quando si tratta di ulteriori restrizioni sulle attività digitali transfrontaliere.
 
Nel frattempo, anche i sussidi domestici e i controlli sulle esportazioni stanno diventando sempre più popolari. Alla fine, il “tat” assume molteplici forme e può prendere pieghe interessanti e inaspettate. A testimonianza di ciò, riflettendo l’ampia portata del protezionismo commerciale e degli investimenti, in Giappone, l’acquisizione canadese di 7-Eleven, una catena di minimarket, è ora oggetto di revisione come accordo relativo alla “sicurezza economica”. L’anno scorso, l’azienda è stata designata come “industria chiave” in Giappone dal Ministero delle Finanze.
 
In Spagna, nel frattempo, il governo sta considerando un sovrapprezzo del 100% sugli acquisti immobiliari effettuati da acquirenti non appartenenti all'Unione Europea. E in Indonesia, uno dei maggiori mercati di telefoni cellulari al mondo, Apple (NASDAQ:AAPL) è stata bandita dalla vendita del suo iPhone 16 perché l'azienda non rispetta le normative locali sulla provenienza dei materiali (abbiamo visto la vistosa flessione del prezzo delle azioni nell’ultima settimana).
 
E poi c'è la Cina che, negli ultimi mesi, ha reagito in modo aggressivo alle restrizioni commerciali e sugli investimenti imposte dagli Stati Uniti con le proprie politiche. Un recente titolo del Wall Street Journal suggerisce i tempi turbolenti che ci attendono: “La Cina reagisce con forza mentre incombe la guerra commerciale con Trump.” Solo negli ultimi due mesi, la Cina ha avviato un’indagine regolatoria su Nvidia, interrotto le catene di approvvigionamento di un importante produttore di droni e bloccato l’esportazione di minerali critici verso gli Stati Uniti.
 
Il risultato: i rischi di un’escalation delle restrizioni commerciali reciproche tra Stati Uniti e Cina rappresentano un pericolo reale e attuale, che probabilmente i mercati stanno sottovalutando.
 
Facciamo un esercizio e pensiamo a ogni "tit" e "tat" come a dei mattoni, con ogni politica e la corrispondente risposta che aggiungono altri mattoni al muro del protezionismo globale. Purtroppo, i muratori sono stati piuttosto occupati di recente e più alto e ampio diventa il muro, maggiori saranno i rischi per la crescita globale, inclusa quella degli Stati Uniti.
 
Non stiamo prevedendo uno scenario simile alla Tariffa Smoot-Hawley, o un ritorno agli anni '30, quando le restrizioni commerciali tit-for-tat portarono a una riduzione di due terzi del commercio globale, a un drastico calo della produzione mondiale e, infine, ad una depressione globale. Tuttavia, le tariffe possono rappresentare un terreno scivoloso verso un maggiore protezionismo globale e i suoi effetti collaterali: un’economia globale più frammentata e rivolta verso l’interno, potrebbe limitare l’accesso delle aziende statunitensi a risorse e mercati esteri.
 
Le aspettative di inflazione in aumento, le catene di approvvigionamento globali sconvolte e una crescita economica mondiale più bassa sono altri residui critici di un mondo impegnato in schermaglie tariffarie. Anche gli Stati Uniti, avvantaggiati da un’economia relativamente autosufficiente e di dimensioni continentali, e tra gli stati meno dipendenti dal commercio al mondo, non sarebbero risparmiati dalle conseguenze di un mondo impazzito per le guerre tit-for-tat.
 
Di particolare rilievo, un’America più incline alle tariffe mette a rischio i grandi afflussi di capitali stranieri necessari per finanziare il suo cronico deficit di risparmio federale. Per decenni, il disavanzo di risparmio dell’America è stato compensato dall’importazione degli eccessi di surplus di capitale mondiale, con una proprietà straniera di titoli statunitensi che ha raggiunto la cifra impressionante di 30,7 trilioni di dollari nel terzo trimestre del 2024. Senza questi flussi, il costo del capitale per l’America sarebbe ancora più alto, considerando che gli investitori stranieri possiedono circa il 31% dei Treasury statunitensi negoziabili, il 37% del mercato obbligazionario aziendale statunitense e il 20% delle azioni statunitensi.
 
In questo contesto, gli Stati Uniti possono aspettarsi che il mondo continui a finanziare il loro deficit di risparmio, mentre Washington brandisce un martello contro i suoi partner commerciali? Vedremo. Basti dire che "tit" e "tat" sono dinamiche che favoriscono e alimentano la volatilità del mercato.
 
Il risultato ci porta ancora una volta a ribadire che gli investitori dovrebbero aspettarsi più turbolenze e incertezze quest’anno, anche se, nel complesso, data la resilienza dell’economia statunitense e la continua crescita degli utili, manteniamo un atteggiamento positivo nei confronti delle azioni statunitensi.
 
 
 
 

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