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Energetici e metalli preziosi - andamento settimanale e prospettive

Pubblicato 23.04.2023, 11:28
© Reuters.

di Barani Krishnan

Investing.com - Sembra che gli orsi del petrolio stiano ancora una volta sfidando l’OPEC+. E sembra che l’OPEC+ ancora una volta agirà prevedibilmente.

I prezzi del greggio hanno segnato il primo calo settimanale su cinque, tra i persistenti aumenti dei tassi USA ed i timori di una recessione che hanno messo fine ad un rally in atto da quando l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di petrolio ed i suoi alleati sono intervenuti per salvare il mercato dai minimi di 15 mesi.

Il calo è stato però di meno del 6%, rispetto al movimento delle quattro settimane precedenti quando il WTI era schizzato complessivamente del 24% ed il Brent del 18%.

Ma la cosa interessante è che il WTI sia tornato sotto gli 80 dollari al barile alla chiusura di venerdì. Gli analisti tecnici dicono che il riferimento USA ha ancora un gap da colmare tra l’attestazione del 31 marzo di 75,67 dollari e l’apertura del 3 aprile di 80,10 dollari. Ciò significa che potrebbe scendere intorno ai 75 dollari questa settimana.

Se il WTI dovesse arrivare a 75 dollari o meno, anche il Brent, scambiato a 5 dollari in più rispetto al greggio USA, rischia di scendere sotto gli 80 dollari. E questo potrebbe scatenare le ire dell’OPEC+. Ma è di tutta l’OPEC+ che dovremmo preoccuparci? O solo di uno dei suoi membri?

Vediamo, iniziando dalla Russia. La verità è che la Russia non ha bisogno di vendere petrolio ad 80 dollari o più. Certo, il limite di 60 dollari imposto dal G7 per l’Urals infastidisce Vladimir Putin.

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Ma il Cremlino sa con chi ha a che fare: un’intera rete globale di trasportatori di petrolio, assicuratori di petroliere, banche e altri fornitori di servizi che non hanno altra scelta se non seguire i dettami dei Treasury USA, o finire per essere sanzionati.

E quindi Mosca si accontenta di fornire tutti i barili che vogliono i clienti disponibili (India e Cina) a prezzi che vadano bene sia per il compratore che per il venditore. E, fino a un mese fa, questi prezzi erano pari o al di sotto del limite del G7.

Il prezzo che la Russia paga per le sanzioni Occidentali, tuttavia, è discutibile.

Nonostante il price cap del G7, le azioni dell’Occidente si sono rivelate una manna dal cielo per importatori e raffinerie indiane, che hanno importato cifre record di barili dalla Russia a prezzi stracciati, ribattezzandoli come petrolio indiano e vendendoli ad un sovrapprezzo.

Tra i compratori, alcune delle stesse nazioni del G7, ben consapevoli di quello che sta succedendo. Ma è comunque quello che voleva Washington: il mondo non dovrebbe essere privato del petrolio russo, importantissimo per un mercato già strozzato dai tagli dell’OPEC e da altri problemi di produzione. E poi il fine del governo Biden era ridurre i finanziamenti per la guerra di Putin in Ucraina, e il price cap sembra stare funzionando in questo senso, dice la Casa Bianca.

Quindi l’elasticità dei prezzi del petrolio è qualcosa che non solo la Russia, ma anche la maggior parte dei paesi dell’OPEC+ ha imparato ad accettare, pur lamentandosene.

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Quattro dei maggiori produttori della regione araba (Iraq, Emirati Arabi Uniti, Kuwait ed Iran) hanno imparato ad adattarsi e tirare la cinghia quando necessario; tranne uno: l’Arabia Saudita.

In un momento in cui l’economia mondiale si sta contraendo, il principe Mohamed bin Salman (o MbS) sta investendo 7 mila miliardi di dollari in un piano di sviluppo per diversificare l’economia saudita allontanandola dal petrolio. Il piano, apparentemente nobile, chiamato Vision 2030 e focalizzato su un centro futuristico, Neom, è partito cinque anni fa, ma è tanto grandioso quanto poco realizzato. E MbS si aspetta che il resto del mondo lo paghi tramite l’egemonia saudita dell’OPEC+.

La ragione principale per cui l’OPEC+ ha annunciato il secondo taglio della produzione in quattro mesi è che i sauditi hanno bisogno di petrolio ad 80 dollari o più, necessario secondo qualcuno per finanziare Neom, senza tener conto dell’economia mondiale.

Per il Wall Street Journal, MbS “ha un piano per usare il pozzo delle entrate petrolifere del suo Paese per trasformarne l’economia, ridisegnarne il panorama e sconvolgere la sua cultura conservatrice”.

Il ministro dell’energia saudita Abdulaziz bin Salman, fratellastro di MbS, l’anno scorso aveva promesso di intervenire se il mercato petrolifero avesse preso la direzione sbagliata. E l’annuncio dei tagli sembra essere stato la soluzione a questo “sbaglio”.

Secondo l’OPEC+, 7 delle 23 nazioni nell’alleanza contribuiranno ai nuovi tagli, negoziati principalmente tra sauditi e russi per giocare d’anticipo sul rallentamento globale. La Russia, da parte sua, ha dichiarato che estenderà fino alla fine dell’anno i tagli di 500.000 barili al giorno promessi a marzo. I sauditi hanno promesso altri 500.000 barili al giorno, oltre a quelli che dicono di stare già tagliando, mentre EAU ne hanno promessi 144.000, Kuwait 128.000, Oman 40.000 ed Algeria 48.000. Il Kazakistan ha promesso di tagliarne 78.000.

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Il Wall Street Journal aggiunge che l’Arabia Saudita vuole dei prezzi più alti per contribuire a “riempire le riserve russe”. Ma le riserve petrolifere russe non hanno bisogno di un sostegno saudita. In quanto maggiore esportatore mondiale di petrolio, i sauditi hanno tratto ancor più vantaggio dell’India dalla guerra ucraina. Hanno ovviamente recitato anche loro la scenetta con la dichiarazione che l’OPEC è apolitica e, quindi, non potevano condannare né agire contro Mosca per l’invasione (posizione interessante visto che il petrolio è la materia prima più politicizzata).

Il vero problema dei tagli alla produzione dell’OPEC+ è che, come il progetto Neom, promettono molto ma realizzano poco.

L’OPEC+ sta usando il potere del megafono: annuncia un taglio, ottiene un enorme impatto positivo sui prezzi, e poi produce quanto vuole.

Pensandoci bene, è facile capirne la logica: nessun produttore respingerà un compratore che vuole più petrolio, perché altrimenti si rivolgerà a qualcun altro. Con la domanda tornata ai livelli del 2019, quasi ogni produttore sta massimizzando la produzione affermando pubblicamente di rispettare i tagli alla produzione.

Entro giugno, però, la domanda estiva accelererà, con o senza i tagli alla produzione. L’OPEC+ allora aumenterà la produzione, probabilmente senza problemi, dando l’idea di stare ancora tagliando i milioni di barili al giorno promessi.

Se i prezzi del greggio dovessero ancora aggirarsi intorno ai 70 dollari o meno in quel periodo per i timori di una recessione, sappiamo cosa faranno i sauditi, in vista della riunione del 3 giugno dell’OPEC+. La realtà è che MbS potrebbe anche non aspettare fino ad allora per far salire il mercato.

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Petrolio: attestazione settimanale e attività

Il greggio West Texas Intermediate scambiato a New York con consegna a giugno si è attestato a 77,87 dollari, in salita di 50 centesimi, o dello 0,6%, al giorno, in base ai dati del CME. Sulla settimana, il WTI è crollato del 5,6% dall’attestazione del 14 aprile di 82,52 dollari.

Su Investing.com, il WTI con consegna a giugno si è attestato a 77,95 dollari, in base ai dati di capital.com.

Il Brent ha chiuso gli scambi di venerdì ad 81,66 dollari, in salita di 56 centesimi, o dello 0,7%, secondo i dati CME. Sulla settimana, il riferimento globale segna -5,4%.

Il Brent con consegna a giugno, scambiato a Londra, si è attestato ad 81,75 dollari al barile su Investing.com, in base ai dati pubblicati da capital.com.

Petrolio: prospettive per il prezzo

Se gli orsi del petrolio tenteranno di spingere il WTI a colmare il gap del 3 aprile di 75,67 dollari, l’attestazione di venerdì di 77,87 dollari sarà la prima ad essere trascinata giù a 77 dollari, preparando il terreno ad un retest del supporto di 75,80 dollari, spiega Sunil Kumar Dixit, chief technical strategist di SKCharting.com.

Al contrario, il contratto di giugno potrebbe tornare verso i 79,50 dollari, livello sopra il quale la media mobile semplice su 200 giorni di 82,40 dollari resta una forte resistenza, afferma.

Oro: attestazione settimanale e attività

Il contratto di giugno dei future dell’oro sul Comex a New York venerdì si è attestato in calo di 28,60 dollari, o dell’1,4% a 1.990,50 dollari. Il bottom della seduta è stato di 1.982,35 dollari. Dopo la corsa al massimo di oltre tre anni di 2.048,60 dollari del 13 aprile, il contratto dell’oro ha perso quasi il 3%. Sulla settimana è sceso dello 0,6%.

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Su Investing.com, l’oro con consegna a giugno si è attestato a 1.994,10 dollari, in base ai dati di capital.com.

Il prezzo spot è sceso di 21,17 dollari, o dell’1,1%, a 1.983,64 dollari. Sulla settimana, ha segnato -1%.

L’ultimo calo settimanale è iniziato dopo che l’indice del dollaro e i rendimenti dei Treasury USA si sono ripresi dai minimi di un anno segnati la scorsa settimana.

Un dollaro relativamente più debole nelle ultime 24 ore, tuttavia, non ha aiutato l’oro.

Pesano sull’oro i timori che la Federal Reserve decida di alzare i tassi di interesse di un quarto di punto nella riunione del 3 maggio, portandoli ad un picco del 5,25%.

Oro: prospettive per il prezzo

Dixit di SKCharting dice che una ripresa dell’oro richiederà un forte breakout della media mobile esponenziale (EMA) su 5 giorni di 1.996 dollari e della zona di resistenza orizzontale di 2.015 dollari, per ritestare il rialzo di 2.048 dollari.

Gas naturale: attestazione settimanale e attività

I tori del gas naturale non stanno facendo molti progressi oltre il livello dei 2 dollari, ma un secondo rialzo settimanale del 5% potrebbe garantire un breakout imminente.

Il contratto di maggio sull’Henry Hub del New York Mercantile Exchange si è attestato in calo di 1,6 centesimi, o dello 0,7%, a 2,221 dollari per mmBtu. Sulla settimana, però, il gas è salito del 5,1%.

Su Investing.com, il gas con consegna a maggio si è attestato a 2,22 dollari, in base ai dati di capital.com.

A brevi intervalli negli ultimi due mesi, il mercato è sembrato sul punto di una seria ripresa.

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Ed è successo di nuovo la scorsa settimana, con il contratto schizzato a quasi 2,40 dollari, entusiasmando trader ed analisti per la prospettiva di un prezzo di 3 dollari ed oltre.

Il calo di venerdì è avvenuto quando gli investitori si sono focalizzati sulle sconvolgenti condizioni delle scorte statunitensi, dopo uno degli inverni più caldi mai registrati.

Le scorte di gas per la settimana terminata il 14 aprile sono aumentate di 75 miliardi di piedi cubici, o bcf, in base al report della Energy Information Administration, o EIA.

L’iniezione da 75 bcf ha gonfiato le scorte fino a 1.930 miliardi di piedi cubici, secondo l’EIA. Ai livelli attuali, le scorte sono il 34% al di sopra del livello di un anno fa di 1,442 tcf e quasi il 21% al di sopra della media quinquennale di 1,601 tcf.

Sul breve termine, i prezzi dell’Henry Hub potrebbero continuare a riprendersi sopra i 2 dollari, dicono gli analisti di Gelber & Associates.

Ma le prospettive a medio termine restano confuse, aggiungono.

Gas naturale: prospettive per il prezzo

In quello che sembra un bottom (ma è ancora troppo presto per confermarlo), i future del gas naturale hanno chiuso sopra la EMA su 5 settimane per la seconda volta, nota Dixit di SKCharting.

“Se un breakout dal canale discendente sopporterà la pressione bearish, superare la EMA su 50 giorni posizionata in modo dinamico a 2,52 dollari sarà la sfida immediata”, spiega. “Questo potrebbe estendere la mossa rialzista verso i 3,03 dollari”.

Una rottura sotto la Banda di Bollinger media di 2,15 dollari potrebbe dare il via ad un calo verso il divario rimasto a 2,11 dollari, estendendosi verso i 2,04 dollari, aggiunge.

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Nota: Barani Krishnan non ha una posizione su nessuna delle materie prime o asset di cui scrive.

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