La rilevanza della dotazione di “capitale umano” per lo sviluppo economico è
stata ampiamente dimostrata dalla letteratura scientifica. Secondo analisi comparate a
livello internazionale, l’investimento in capitale umano consente di adottare
miglioramenti produttivi, organizzativi e gestionali assai rilevanti: un aumento
equivalente a un anno di istruzione in più per la media dei lavoratori sarebbe associato a
un aumento di livello del prodotto pro capite del 5 per cento. Ma un elevato livello di
capitale umano permette altresì di adottare metodi di produzione più efficienti e di
innalzare il tasso di innovazione, con stime dell’ordine di mezzo punto percentuale
all’anno, con intensità decrescente, a parità di tassi di innovazione, via via che si riduce la
distanza dalla frontiera produttiva. Questo ruolo è probabilmente ancora più rilevante alla
luce dei fenomeni di fondo che stanno investendo le nostre economie.
Per lungo tempo si è ritenuto che le recenti innovazioni tecnologiche
avvantaggiassero i lavoratori in misura crescente con le loro competenze, accentuando
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così gli effetti sperequativi dell’ingresso sulla scena mondiale di grandi economie con
ampi vantaggi competitivi nei settori a minore intensità di competenze qualificate. Si è
poi compreso che gli effetti delle nuove tecnologie sono più complessi. Esse sono in
grado di rimpiazzare efficacemente le attività routinarie e codificabili in una sequenza di
istruzioni realizzabile da una macchina, divenendo così un complemento sia delle attività
manageriali e intellettuali sia, ancorché in misura minore, di quelle manuali non
ripetitive, che non possono essere rimpiazzate da macchine.
Con la progressiva scomparsa dei lavori a contenuto più routinario a favore di
quelli non di routine, avviatasi negli anni ottanta in occasione della prima ondata di
diffusione dei personal computer, i nuovi lavori che si renderanno disponibili con il
procedere dell’innovazione tecnologica richiederanno dunque di andare oltre
l’applicazione di conoscenze standardizzate. Il capitale umano non tenderà più a
coincidere semplicemente con il bagaglio conoscitivo delle persone e la produttività dei
lavoratori non sarà più essenzialmente legata alle conoscenze acquisite una volta per tutte
sui banchi di scuola e applicate in modo standard nel corso della vita lavorativa.
Assumerà invece importanza crescente la “competenza”, definita dagli educatori come la
capacitàdi mobilitare risorse interne (saperi, saper fare, atteggiamenti) ed esterne in
maniera integrata, per far fronte in modo efficace a situazioni spesso inedite e certamente
non di routine. Sono, queste, anche le capacità che consentono alle innovazioni di
emergere dal quotidiano, combinando in modo efficace le risorse disponibili.
Le misurazioni dirette di questo tipo di conoscenze e competenze mostrano che il
ritardo italiano è ancor più grave di quello desumibile dal confronto di misure imprecise
come il numero medio di anni di istruzione o la quota di laureati. Secondo l’indagine
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Adult Literacy and Lifeskills (ALL) condotta dall’OCSE nel 2003, la popolazione
italiana oltre l’età dell’obbligo scolastico non possiede una “competenza alfabetica
funzionale” (literacy) adeguata alle esigenze di un paese avanzato: l’80 per cento circa
degli italiani di età compresa tra i 16 e i 64 anni ha un livello di padronanza della lingua
madre giudicato sostanzialmente insufficiente. In confronto, nei paesi con competenze
più elevate (come la Norvegia) questa quota non supera il 30 per cento mentre in quelli in
posizione intermedia (Canada, Stati Uniti, Svizzera) non si va oltre il 50 per cento; il
divario, se riferito alla popolazione d’età fra i 16 e i 25 anni, è solo marginalmente
inferiore a quello che caratterizza la classe di età tra i 46 e i 65 anni. Non diversi sono i
risultati in termini di “competenza matematica funzionale” (numeracy).
Sempre con riferimento ai più giovani, nelle tre indagini PISA condotte
dall’OCSE tra il 2000 e il 2006, l’Italia ha sistematicamente evidenziato un significativo
ritardo nelle competenze degli studenti quindicenni (in Italia per il 92 per cento
all’interno della scuola media superiore) in ciascuno degli ambiti indagati, quantificabile,
rispetto alla media dei paesi OCSE, in poco meno di quello che si impara in un anno di
scuola. Nell’indagine del 2009 il divario persiste anche se conforta l’osservazione di una
tendenza alla sua riduzione, in particolare nel Mezzogiorno, che comunque resta l’area
caratterizzata da un più pesante ritardo.
Si possono avanzare interpretazioni diverse di questi divari, della loro
distribuzione geografica e delle differenze prevalenti tra scuole diverse anziché
all’interno delle scuole. Ma va osservato che un paese povero di risorse materiali
dovrebbe mirare a investire in “conoscenza” non “sotto” e neppure “sulla” ma “al di
sopra” della media di altri paesi più dotati di risorse naturali del nostro. Dal confronto tra
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PISA e le altre indagini internazionali relative a momenti precedenti dell’iter scolastico,
appare inoltre evidente come questo ritardo derivi da un progressivo deterioramento
qualitativo con il procedere dei vari ordini di scuola. L’evidenza è congruente con la
diffusa opinione di una buona qualità delle nostre scuole elementari e di una deludente
qualità della scuola media. Di fatto, la scuola elementare sembra efficace nel favorire
l’apprendimento della lettura e delle scienze, meno per la matematica, indipendentemente
dal set di paesi presi a riferimento. Nella scuola secondaria di primo grado i risultati in
scienze sono peggiori della media delle indagini internazionali, indipendentemente dal
gruppo di paesi scelti come riferimento, e le difficoltà nella matematica si aggravano.
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