Secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, la quota dell’area
dell’euro nel PIL mondiale, pari nel 2000 al 18 per cento, a parità di potere
d’acquisto, scenderà al 13 nel 2015. Nello stesso periodo la quota dei paesi emergenti
asiatici raddoppierà, dal 15 al 29 per cento: non tanto a causa della crescita
della popolazione, quanto per l’aumento del PIL per abitante, che passerà nel
2015 al 20 per cento di quello dell’area dell’euro, dall’8 del 2000.
È sufficiente questo dato per descrivere il mutamento radicale negli equilibri
economici mondiali. La nostra economia ne risente più di altre. Essa manifesta da
anni una incapacità a crescere a tassi sostenuti; l’ultima recessione ha fatto diminuire
il PIL italiano di quasi 7 punti.
Abbiamo subito una evidente perdita di competitività rispetto ai nostri principali
partner europei. Tra il 1998 e il 2008, nei primi dieci anni dell’Unione monetaria,
il costo del lavoro per unità di prodotto nel settore privato è aumentato del
24 per cento in Italia, del 15 in Francia; è addirittura diminuito in Germania.
Questi divari riflettono soprattutto i diversi andamenti della produttività del
lavoro: in quel decennio, secondo i dati disponibili, la produttività è aumentata del
22 per cento in Germania, del 18 in Francia, solo del 3 in Italia.
Nello stesso periodo il costo nominale di un’ora lavorata è cresciuto in Italia
del 29 per cento: più che in Germania (20 per cento), molto meno che in Francia
(37 per cento). La maggiore inflazione italiana ha contenuto i salari reali,
allineandone la dinamica a quella tedesca (3 per cento nel decennio); ma in Germania
le retribuzioni orarie medie, all’inizio del periodo, erano di oltre il 50 per
cento maggiori delle nostre. In Francia le retribuzioni reali orarie sono aumentate
del 16 per cento.
Per comprendere le difficoltà di crescita dell’Italia, dobbiamo innanzitutto
interrogarci sulle cause del deludente andamento della produttività.
I fattori sono molteplici. Alcuni sono simili a quelli che distinguevano il
“modello di sviluppo tardivo” dell’Italia, come lo definì Fuà: marcati e persistenti
dualismi nella dimensione delle imprese, nel mercato del lavoro4. La loro origine
stava per Fuà nella difficoltà di introdurre in modo generalizzato le tecniche organizzative
e produttive sviluppate nei paesi leader. Ne derivava una segmentazione
della struttura produttiva tra imprese “moderne” e “pre-moderne”, con ampie differenze
di produttività, che si riflettevano nelle retribuzioni.
La dimensione media delle imprese italiane rimane ridotta nel confronto internazionale.
In passato, quando l’innovazione era prevalentemente di processo, la
piccola dimensione d’impresa poteva dare flessibilità al sistema produttivo, meglio
se attraverso un’aggregazione in distretti. Oggi l’innovazione riguarda principalmente
i prodotti e la loro diversificazione: per le imprese più piccole si rivela
sempre più difficile sfruttare le economie di scala e competere con successo nel
mercato globale.
Nel mercato del lavoro il dualismo si è accentuato. Rimane diffusa
l’occupazione irregolare, stimata dall’Istat in circa il 12 per cento del totale delle
unità di lavoro. Le riforme attuate, diffondendo l’uso di contratti a termine, hanno
incoraggiato l’impiego del lavoro, portando ad aumentare l’occupazione negli anni
precedenti la crisi, più che nei maggiori paesi dell’area dell’euro; ma senza la
prospettiva di una pur graduale stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari, si
indebolisce l’accumulazione di capitale umano specifico, con effetti alla lunga negativi
su produttività e profittabilità5.
Si aggiunge un problema di concorrenza nei servizi. Studi condotti in Banca
d’Italia mostrano da tempo come la mancanza di concorrenza nel settore terziario
ne ostacoli lo sviluppo e crei inflazione; essa incide anche sulla produttività e
competitività del settore manifatturiero6. Nel 1998 si presero misure di liberalizzazione
del commercio al dettaglio; documentammo come esse favorissero in quel
comparto l’occupazione, la produttività e l’adozione di nuove tecnologie7. Ma
l’impegno a liberalizzare il settore dei servizi si è da tempo interrotto.
Abbiamo ripetutamente richiamato l’attenzione sul più generale difetto, nel
nostro paese, di social capability, il termine usato da Fuà per indicare la mancanza
“di un quadro politico e giuridico, di un sistema di valori, di una mobilità sociale,
di un genere d’istruzione, di una disponibilità di infrastrutture tali da favorire lo
sviluppo economico moderno”8.
La crescita del prodotto per abitante in Italia si va riducendo da tre decenni:
siamo passati da un aumento annuo del 3,4 per cento negli anni Settanta, a uno del
2,5 negli anni Ottanta, dell’1,4 negli anni Novanta, alla stasi dell’ultimo decennio.
Talvolta, viene notato come questi andamenti siano medie di un Nord allineato al
resto d’Europa e di un Centro-Sud in ritardo. Ma così non è. Anche se le carenze
di social capability sono più marcate nel Mezzogiorno9, e contribuiscono a spiegare
i divari nei livelli di sviluppo civile ed economico, la stagnazione della
produttività nel decennio precedente la crisi è stata uniformemente diffusa sul territorio.
È un problema del Paese.
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