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La crisi e i controlli di vigilanza

Da Banca d'Italia14.12.2010 10:36
 

Le carenze poste in evidenza dalla crisi non hanno riguardato solo le regole; in alcuni paesi si sono manifestate anche nell’ambito delle attività di controllo svolte dalle autorità responsabili per la vigilanza prudenziale. A questo riguardo, mi sento di sottolineare che
8 Financial Stability Board, Press Release: FSB meeting in Seoul, ottobre 2010.
9 Financial Stability Board, Report on Improving OTC Derivatives Markets, ottobre 2010.
10 Financial Stability Board, Report on Principles for Reducing Reliance on CRA Ratings, ottobre 2010.
l’Italia si colloca tra gli ordinamenti in cui la filosofia di vigilanza risulta già largamente in
linea con quelli che allo stato paiono essere gli orientamenti prevalenti a livello
internazionale.
Così come per le regole, ci si è resi conto che anche per i controlli prassi di vigilanza
relativamente poco severe erano state di fatto utilizzate, nel periodo precedente la crisi, come
strumento di competizione tra le diverse piazze finanziarie internazionali. Approcci ‘leggeri’
alla supervisione (cosiddetti light-touch o hands-off), infatti, avevano incentivato la
costituzione o l’operatività degli intermediari sulle piazze finanziarie che li avevano promossi,
con benefici, almeno nel breve periodo, per l’occupazione, l’economia e le finanze pubbliche
dei paesi interessati.
Due esempi ben rappresentano, a mio avviso, la diversità negli stili di supervisione
adottati dalle autorità di vigilanza, talvolta anche nell’ambito della stessa Unione europea: la
conduzione del processo di controllo prudenziale (supervisory review process) previsto dal
secondo pilastro di Basilea 2 e l’intensità del ricorso alle visite ispettive presso gli
intermediari vigilati.
Sul primo fronte è parsa evidente, alla luce dell’esperienza della crisi, la differenza tra le
autorità che avevano interpretato il processo di controllo prudenziale come un confronto
realmente dialettico tra autorità e intermediari, incentrato sulla valutazione dell’effettiva
capacità di questi ultimi di misurare, gestire e presidiare in modo integrato il complesso dei
rischi aziendali, e le autorità che avevano invece dato del secondo pilastro un’interpretazione
alquanto minimalista, secondo la quale il supervisory review process rappresentava più che
altro uno strumento informativo a disposizione delle autorità per conoscere meglio le
caratteristiche operative e il sistema di gestione dei rischi degli intermediari.
Sul fronte delle ispezioni sono emerse chiare differenze tra chi ricorreva intensamente e
in modo strutturato a questo strumento di controllo, reputandolo di gran lunga il più efficace
per valutare sul campo il rispetto delle regole da parte degli intermediari, e chi, invece, ne
faceva un uso relativamente più modesto, riservato prevalentemente a quegli intermediari per
i quali l’analisi off-site rilevava situazioni di anomalia.
La crisi ha inoltre mostrato la difficoltà con la quale i supervisori nazionali possono
riuscire a contenere gli incentivi all’assunzione di rischi da parte di intermediari la cui
operatività travalica i confini nazionali e le cui attività (in bilancio o fuori bilancio)
raggiungono valori di gran lunga superiori a quelli del prodotto interno lordo dei paesi in cui
sono insediati. In questi casi, infatti, il rischio di ‘cattura’ del supervisore da parte
dell’intermediario può risultare elevato. La stessa dimensione, talvolta, è stata utilizzata dagli
intermediari come un vero e proprio strumento per indurre le autorità nazionali ad adottare gli
approcci light-touch o hands-off che citavo in precedenza, arrivando a ipotizzare, in caso
contrario, la rilocalizzazione verso giurisdizioni considerate più tolleranti o market-friendly.
Carenze si sono anche manifestate, anche nell’ambito dell’Unione europea, sul fronte
della cooperazione internazionale tra le autorità coinvolte, con responsabilità diverse, nella
supervisione di grandi gruppi bancari cross-border.
Prassi e stili di supervisione differenti hanno spesso reso difficile l’adozione di un
approccio realmente integrato alla valutazione, su base consolidata, dei profili di rischio dei
gruppi cross-border. L’efficacia degli interventi di vigilanza volti a prevenire, secondo una
logica unitaria, l’emergere di possibili situazioni di difficoltà ne ha a volte risentito. Gli
intermediari, da un lato, hanno dovuto confrontarsi, a livello locale, con una pluralità di
supervisori pur agendo come un unico grande gruppo bancario; dall’altro hanno potuto
talvolta sfruttare a loro vantaggio la frammentazione dell’azione di vigilanza per attenuare la
severità dei controlli.
Va anche detto, però, che, soprattutto nei momenti in cui sono cominciate a emergere
situazioni di difficoltà di alcuni grandi gruppi cross-border, la propensione delle autorità a
cooperare è risultata scarsa. Purtroppo, gli esempi di grandi intermediari divenuti a pieno
titolo cross-border nella fase precedente la crisi, ma ritornati squisitamente nazionali nei
momenti di maggiore difficoltà sono ormai parte dell’esperienza di questi ultimi anni. Vi sono
chiaramente delle ragioni, connesse con il sostegno fornito dai governi e, quindi, dai
contribuenti nazionali, che possono spiegare, anche in Europa, l’emergere di istinti
protezionisti nella fase di gestione delle crisi di grandi gruppi cross-border. Ma la sensazione
è che si sia talvolta andati oltre, mettendo a rischio lo stesso processo di integrazione sia dei
mercati finanziari globali che del mercato unico europeo.

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