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La crisi globale e il suo impatto sull’Unione Europea

Da Banca d'Italia14.02.2011 11:04
 

Gli sviluppi della crisi finanziaria che ha colpito l’economia mondiale
nell’agosto del 2007 sono ben noti e quindi mi limiterò a riassumere brevemente quelli
che mi sembrano essere gli aspetti salienti del suo impatto sull’Unione Europea. Il
punto che intendo fare è che la crisi ha avuto tre fasi distinte e che ciascuna di esse ha
avuto implicazioni diverse per i vari paesi della UE.
La prima fase. La prima fase, quella dei “titoli tossici”, inizia negli Stati Uniti
e si diffonde in Europa attraverso quei sistemi bancari in cui questo tipo di strumenti
finanziari, ad alto rendimento e ad alto rischio, rappresentava una quota importante
dell’attività di intermediazione finanziaria. La diffusione è avvenuta specialmente
attraverso la rete di “veicoli” creati appositamente per commercializzare questi prodotti.
Questa rete è divenuta col tempo un vero e proprio “sistema bancario ombra” operante
al di fuori della supervisione delle autorità di vigilanza. Come è noto, in questa fase si
sono avuti molti casi di crisi bancarie che hanno richiesto interventi di sostegno da parte
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dei governi. L'Italia è stato uno dei paesi meno colpiti in questa fase e nessuna banca
italiana è stata posta sotto controllo pubblico. La vigilanza della Banca d'Italia ha
impedito che da noi si venisse a creare un "sistema bancario ombra" e la posizione di
liquidità delle banche è stata tenuta sotto controllo quotidiano. Da noi la vigilanza non
ha mai adottato la tecnica del "tocco leggero" tanto predicata a Londra. Il sostegno
finanziario dei governi alle banche in percentuale del PIL del 2009 è stato dell’1,3 per
cento in Italia contro il 51,9 in Gran Bretagna, il 32,2 in Spagna, il 20,6 in Germania, il
18,4 in Francia. Le banche italiane hanno fatto ricorso al rifinanziamento della BCE in
modo molto contenuto, anche nei momenti di acuta carenza di liquidità sui mercati
interbancari. Nessuna banca italiana figura nella lista dei “clienti abituali” della BCE.
Da questa fase della crisi si possono trarre alcune lezioni soprattutto per la
regolamentazione e la vigilanza in Europa. È necessario armonizzare le regole e le
procedure di vigilanza bancaria e finanziaria al fine di evitare disparità di trattamento tra
operatori di diversi paesi. Non può essere consentito che volumi importanti di
intermediazione bancaria e finanziaria sfuggano a qualsiasi forma di supervisione
prudenziale, attraverso l'uso di operazioni e di veicoli "fuori bilancio". Infine
l'esperienza ha mostrato la maggiore efficienza di sistemi in cui la vigilanza bancaria è
affidata alla banca centrale. Le banche centrali sono infatti meglio in grado di
individuare tempestivamente situazioni di crisi perché sono a diretto contatto
giornalmente con i mercati monetari e con il sistema dei pagamenti.
La seconda fase. La seconda fase della crisi è caratterizzata dalla forte
recessione dell'attività economica nel 2009. Per contrastare la recessione, la politica
monetaria della BCE è divenuta fortemente espansiva e misure di sostegno fiscale sono
state introdotte in quasi tutti i paesi della UE. In questa fase l'economia italiana è stata
fra quelle più colpite. Il prodotto interno lordo è diminuito in Italia del 5 per cento,
contro il 4,7 in Germania, il 2,5 in Francia, il 3,7 in Spagna e il 4,9 nel Regno Unito. La
recessione è stata particolarmente sentita dalle piccole e medie imprese che sono la
parte più importante del settore industriale italiano, con effetti immediati sulla
produzione e l'occupazione. D'altra parte, l'elevato debito pubblico non ha consentito
all’Italia di introdurre misure di stimolo all'economia come in altri paesi. Da noi si è
potuto solo accrescere il sostegno ai lavoratori disoccupati. La disoccupazione in Italia
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si è comunque mantenuta sul livello registrato in Germania e in Francia e ben al di sotto
di quello della Spagna.
La lezione di questa seconda fase della crisi è lo straordinario successo delle
politiche economiche adottate che hanno efficacemente contenuto l'intensità e
l'ampiezza della recessione. Non si sono avute le disastrose conseguenze della crisi
degli anni Trenta e la recessione è durata solo un anno. Già nel 2010 si è avuta una forte
ripresa in tutta la UE. Ma si è anche visto chiaramente che l'uscita dalla recessione è
stata diversa da paese a paese. Paesi con le finanze pubbliche in ordine e con debito
pubblico sopportabile hanno potuto reagire in modo più tempestivo ed efficace alle
tendenze recessive indotte dalla crisi. Paesi come l'Italia, gravati da un pesante debito
pubblico, hanno dovuto limitare al massimo lo stimolo fiscale e accettare un ritmo più
lento di ripresa. Hanno inoltre influito le diverse situazioni della produttività dei fattori,
della competitività esterna, della flessibilità del mercato del lavoro. Infine, si è visto
come in regime di globalizzazione i mercati finanziari hanno una "pazienza" limitata nei
confronti di politiche fiscali espansive che non siano accompagnate da un credibile e
ben definito piano di rientro verso livelli di deficit e di debito ritenuti sostenibili nel
medio periodo. Questo tipo di "disciplina di mercato" ha una sua validità anche se non
sono mancati eccessi. Operatori finanziari, analisti, rating agencies che nel 2008
chiedevano a gran voce un massiccio stimolo monetario e fiscale per contrastare la crisi,
già nel 2009 esprimevano preoccupazione per la crescita del debito pubblico e
auspicavano l'adozione di exit strategies, prospettando gravi ripercussioni sui mercati in
caso di ritardi o esitazioni.
La terza fase. La terza fase della crisi, nella quale la UE ancora si trova, ha
avuto inizio con la “scoperta” della grave situazione della finanza pubblica in Grecia
all'inizio del 2010 e con il contagio che si è rapidamente esteso a gran parte del mercato
del debito sovrano europeo. Malgrado le energiche misure assunte dalla BCE, dai paesi
dell'Eurogruppo e dalla UE, le tensioni si sono manifestate ripetutamente nel corso
dell'anno, alimentate da speculazioni finanziarie e verbali che ipotizzavano la bancarotta
di questo o quello stato sovrano, la scomparsa dell'euro, la rottura della UE. Anche in
questo caso l'impatto della crisi è stato diverso da paese a paese. I tassi di interesse sui
titoli di stato sono diminuiti in Germania, in qualche momento anche a poco più del 2
per cento e sono aumentati a livelli record in Grecia, Portogallo, Irlanda. Sono anche
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aumentati, ma in misure minore, in Spagna e in Italia. Lo spread dell'Italia, che era più
alto di quello della Spagna fino all’aprile 2010, si è poi mantenuto costantemente al di
sotto dello spread spagnolo fino ad oggi, testimoniando la valutazione positiva del
mercato per la gestione della finanza pubblica in Italia in questa fase della crisi. In
valore assoluto, i tassi dei titoli di stato italiani decennali sono rimasti stabilmente
all'interno di una fascia compresa tra il 4 e il 5 per cento sin dall'inizio dell'Unione
monetaria fino a oggi, un livello del tutto naturale per titoli a lungo termine e sostenibile
nel tempo. La valutazione del mercato riflette anche il basso livello del debito privato
dell'Italia, la solidità del suo sistema bancario, l'alto livello della ricchezza, reale e
finanziaria, delle famiglie e, infine, l'ampiezza e l'articolazione della sua industria
manifatturiera, operante in tutti i principali settori. Infine, si tiene conto del fatto che, in
base al programma pluriennale di stabilizzazione finanziaria già approvato dal
Parlamento, il rapporto deficit/PIL scenda sotto il 3 per cento nel 2012 e si avvicini al 2
per cento nel 2013, in linea con l’obiettivo di portare il bilancio in pareggio negli anni
successivi. Sembra, in sintesi, che il mercato giudichi l'Italia in grado di affrontare i
problemi strutturali che la affliggono.
È certamente prematuro trarre lezioni definitive da questa fase della crisi che è
tuttora in corso. Ma è possibile svolgere qualche considerazione di carattere
preliminare. Va ricordato in primo luogo che, se si considera l'eurozona nel complesso,
la situazione della finanza pubblica europea è migliore di quella di altre grandi
economie come gli Stati Uniti e il Giappone. Il rapporto deficit/PIL per l'eurozona era
del 6,3 per cento nel 2009 ed è previsto scendere al 3,9 per cento nel 2012. I dati
corrispondenti per gli USA sono 12,9 e 6,7 per cento e per il Giappone 10,2 e 8,1 per
cento. Nel 2012 il rapporto debito pubblico/PIL è previsto per l'eurozona all'88 per
cento, contro il 103 per cento negli USA e il 239 per cento in Giappone. Si può quindi
affermare che l'eurozona non ha un problema di squilibrio delle finanze pubbliche sul
piano globale. Del resto, la bilancia dei pagamenti europea è in equilibrio e la
quotazione dell'euro sui mercati, pur con qualche volatilità, è rimasta forte nei confronti
delle altre principali valute durante tutto il periodo della crisi. È invece vero che alcuni
stati dell'eurozona hanno un problema di disavanzi e di debito eccessivi che, se non
adeguatamente affrontato, può comportare rischi di instabilità per l'eurozona e per
l'euro.
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Tuttavia, l'esperienza della crisi ha mostrato che la UE non aveva gli strumenti
necessari nè per prevenire, nè per gestire questo tipo di problemi. L'eurozona poteva
contare sulla politica monetaria della BCE e sul Patto di Stabilità e Crescita (PSC). La
BCE ha assicurato la stabilità dei prezzi nel medio periodo e ha fornito alle economie la
liquidità necessaria per il funzionamento dei sistemi bancari e finanziari, ma non può
farsi carico della soluzione di problemi di finanza pubblica senza tradire il suo mandato
costituzionale. E il PSC è stato violato già prima della crisi proprio dai maggiori paesi,
Germania, Francia e Italia, che avrebbero dovuto dare il buon esempio a tutti gli altri.
Ci si deve chiedere se sia realistico ritenere che la UE possa affrontare i rischi
della globalizzazione finanziaria armata solo di una "politica", forte e efficiente ma di
portata limitata, e di una "regola", chiara e semplice ma che ciascun paese è libero di
interpretare a suo piacimento. L'armamentario degli strumenti di politica economica
della UE va dunque ampliato e adeguato alla realtà dell'economia e della finanza
globale se si vuole preservare la moneta europea. Si tratta di uno sforzo cui tutti i paesi
membri dell'eurozona devono partecipare perché la creazione dell'euro ha apportato
benefici per ogni paese. La Germania ha ottenuto un grande mercato interno libero da
restrizioni e da svalutazioni competitive: nel 2009 il 61 per cento dell’attivo
commerciale della Germania è stato nei confronti degli altri paesi dell’eurozona; il dato
sale all’87 per cento nei confronti degli altri paesi della UE. Al momento della
creazione dell’euro, la Germania aveva un disavanzo della bilancia dei pagamenti
corrente pari al 1,4 per cento del PIL; oggi la Germania ha un avanzo pari al 5 per cento
del PIL. D’altro canto, i partner della Germania hanno potuto beneficiare della stabilità
monetaria garantita dalla BCE e ridurre i propri tassi d'interesse a livelli molto vicini a
quelli della Germania. Il "patto fondativo" su cui si è basata la Unione Economica e
Monetaria (UEM) è stato quindi rispettato da tutti e se permangono nella UE squilibri di
competitività e di produttività e nelle finanze pubbliche è compito della UE dotarsi degli
strumenti e delle procedure per indurre i paesi membri a rimuovere quegli squilibri.
Prima di esaminare quali potranno essere i rimedi per correggere le
inadeguatezze della UE, vorrei brevemente analizzare per quali motivi la UE sia giunta
impreparata a fronteggiare la crisi globale.

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