Venerdì 11 Gennaio
L’impulsività del rimbalzo si è comprensibilmente attenuata, come è assolutamente fisiologico se pensiamo che l’escursione dal minimo del 24 dicembre (2317 sul future) ai livelli attuali dell’S&P 500 (2590) è stata quasi del 12%(!) e in sole 11 sessioni. Molte notizie positive stanno presumibilmente esaurendo il loro effetto, dal giro di valzer di Powell al dialogo apparentemente costruttivo tra Cina e Stati Uniti. Resta probabilmente da incassare la fine dello shutdown governativo che rischia però di farci aspettare ancora qualche giorno e non necessariamente fornirà un’ulteriore spinta al sentiment positivo del mercato.
Il ribaltone di Powell è stato confermato e addirittura amplificato dai numerosissimi interventi di componenti del FOMC in una settimana dall’agenda davvero zeppa di conferenze, panel, dibattiti di ogni genere. Tre dei quattro membri a rotazione (governatori delle Fed regionali), Bullard, Evans e Rosengren, che sono diventati votanti nel 2019 si sono aggiunti al coro di voci attendiste e flessibili, dichiarando anch’essi di voler prestare la massima attenzione al mercato in totale sintonia con il loro capo. Mercoledì sera le minute del FOMC del 19 dicembre sono sembrate fin troppo dovish rispetto a quello che era stato il tono del Governatore nella conferenza stampa, ben diverso, incurante della volatilità sul mercato e probabilmente un fattore nei forti ribassi delle sessioni successive. Si potrebbe quasi insinuare che le minute siano state ‘massaggiate’ verso accenti più accomodanti in tempi più recenti. Ieri Powell è intervenuto ancora. In linea di massima, il messaggio è rimasto lo stesso di venerdì scorso: flessibilità e disponibilità ad essere pazienti grazie a rischi inflattivi molto contenuti. Di senso marginalmente contrario è stata però l’affermazione che lo stato patrimoniale della Fed “tornerà ad essere sostanzialmente più piccolo rispetto alla dimensione attuale”. Sembra che con i mercati allontanatisi dal baratro Jay sia già pronto a cambiare un po’ il tono. Se così fosse una recente narrativa che ho captato da qualche osservatore, che considero solitamente più acuto della media, potrebbe prendere piede. Powell non sarebbe per nulla preoccupato dall’inflazione, questo è vero (da cui la sincera disponibilità all’attendismo). Ma sarebbe, a differenza dei suoi predecessori, ben più terrorizzato dall’incubo di generare una nuova bolla finanziaria. Il che sarebbe coerente sia con la sua spavalderia di inizio ottobre (“siamo ancora molto lontani dalla neutralità”) quando le borse erano quasi ai massimi e gli spread di credito non lontano dai minimi, sia con la sua successiva disponibilità a ritrattare successivamente ma solo quando l’avvitamento del mercato ha reso poco plausibile timori di un ingiustificato surriscaldamento finanziario.
Resistenze. Sopra 2600 (S&P 500) l’aria a Wall Street rischia di diventare un po’ più rarefatta. I livelli che non saranno facili da superare, e al cospetto dei quali bisognerà essere più reattivi nell’alleggerire quanto auspicabilmente comperato dopo Natale, iniziano con livelli staticici nell’area 2600-2630 (vari minimi giornalieri minimi di ottobre, novembre, dicembre) e proseguono con il ritracciamento (50%) della discesa del Q4 (2631) e la media mobile a 50 giorni (2637).
Brexit, i prossimi passi
Dopo un periodo di inconsueta calma su questo fronte, la saga è destinata presto a riprendere quota. L’incertezza,che a meno di 80 giorni dalla fatidica scadenza (il 29 marzo) resta elevata, continua ad alimentarsi sullo stesso dilemma. Chi vuole un’uscita ad ogni costo, eventualmente anche disordinata, senza accordi, è ben lontano da rappresentare una maggioranza. Sono solo i Brexiteers più oltranzisti quelli che pur di evitare il rischio di nuove elezioni e/o di un nuovo referendum in grado di rimettere in discussione la scelta del 2016 o anche solo di veder ratificata una forma troppo morbida di separazione dall’Unione sono realmente disposti a scegliere la cosiddetta ‘no-deal Brexit’. Il problema è che questo esito resta quello automatico nel caso non si trovi un consenso maggioritario per una qualsiasi alternativa. La complicata agenda che ci attende si ravviverà nei prossimi giorni.
Martedì 15 il Parlamento sarà chiamato a ratificare l’accordo (di uscita + dichiarazione politica sugli assetti futuri) messo in pista da Theresa May. Un voto che sarebbe dovuto avvenire un mese fa ed è poi stato rinviato per evitare una sconfitta praticamente certa. Sconfitta che è destinata ad arrivare comunque salvo colpi di scena (stimerei un 75%-80% che il Parlamento rifiuti la ratifica). Recenti analisi vedono ancora la conta dei voti contrari nettamente superiore ai favorevoli: Sky stima423, il Guardian 425 voti dichiaratamente contrari (la maggioranza si raggiunge a 318).
La sconfitta di Theresa May implicherebbe (causa l’approvazione dell’emendamento Grieve) l’impegno da parte del governo a ripresentarsi in aula a discutere entro 3 giorni (con l’attuale calendario parlamentare si tratterebbe di lunedì 21) un piano B. L’interpretazione Primo Ministro sembra essere quella di poter concedere solo un dibattito breve (90 minuti) e con al massimo 1 emendamento apportabile al percorso illustrato. Bisogna vedere se lo storico speaker della Camera, John Berkow, avvallerà questa procedura auspicata dall’esecutivo. In ogni caso un po’ di potere di guida in una fase sempre più delicata verrà trasferito dalla May al Parlamento, non necessariamente un male se l’obiettivo è quello di evitare un’uscita senza accordo. Quale può essere il piano B di Theresa May? Due sono le ipotesi più accreditate: a) insistere sull’accordo rigettato, cercando un’ultima disperata negoziazione a Bruxelles per ottenere qualche concessione in grado, insiemealla pressione crescente per l’incombere della scadenza, di rendere vincente un ulteriore tentativo di ratifica; b) concedere al Parlamento di esprimerecon dei voti indicativi un potenziale consenso maggioritario per soluzioni alternative come la revoca o la richiesta di estensione dell’articolo 50, una forma di accordo diverso (Norway+ o unione doganale), un referendum, un rinvio a elezioni anticipate. Trasformandosi da guida autoritaria a esecutrice di un mandato in grado di aggregare forze politiche diverse Theresa May potrebbe forse riuscire a far convergere un consenso parlamentare sufficiente per una soluzione alternativa.
La sconfitta nel tentativo di ratifica innescherebbe probabilmente anche un tentativo laburista di ribaltare il tavolo per andare a nuove elezioni, richiedendo un voto di sfiducia nel PM. Teoricamente non ci sono i voti, con il DUP e i Conservatori ‘ribelli’ che, pur in disaccordo con l’esecutivo, non avrebbero convenienza a correre il rischioper nulla remoto di consegnare la guida del paese a Corbyn. Potrebbero però arrivare al punto di far cadere il governo con l’obiettivo nel 14 giorni successivi (garantiti dalla Costituzione per tentare un nuovo accordo di governo ed evitare le elezioni) di rimettere in sella Theresa May con un mandato più ‘addomesticato’ al Parlamento.
Restate sintonizzati, con la politica inglese (come con quella italiana peraltro) di questi tempi ci si annoia poco...
Asia: Liu He e Richard Clarida
Un paio di sviluppi hanno tenuto I mercati supportati e il dollaro offerto anche durante la sessione notturna. Il Vice Premier cinese Liu He,il più alto in grado nella gestione di tematiche economiche e commerciali al servizio di Xi Jinping, sarà a Washington per incontri ufficiali il 30 e 31 gennaio.È una conferma indiretta che i negoziati stanno facendo qualche forma di progresso. Lo yuan ha continuato la sua fase di rafforzamento, spingendosi a livelli (6.74) contro dollaro che non si vedevano daluglio. La discesa del USD/CNH in quest’inizio di 2019 è stato in effetti un fattore-guida (pur con il suo ‘beta’ ridotto) alla più generale debolezza del dollaro. Richard Clarida, l’ex Pimco recentemente arrivato alla corte di Powell e che rappresenta probabilmente la voce più seguita del FOMC dopo quella del Governatore, parlando al forum Market Marketeers a New York,ha confermato la nuova ondata di dovishness proveniente dalla banca centrale: “If economic 'crosswinds' are sustained, Fed policy should respond to offset them / Global growth prospects moderated somewhat in recent months, financial conditions tightened materially / Fed can be patient /We will not hesitate to make changes' to strategy of shedding assets / Recent weakness means inflation may not yet be sustainably at a 2 pct target”. Il tutto (insieme a un dato australiano di vendite al dettaglio migliore delle attese) ha contribuito a tenere viva la recente positività dei mercati azionari (Nikkei +1.0%, Shanghai Comp +0.3%, Hang Seng +0.2%) anche se con effetti complessivamente limitati (il future dell’S&P 500 è fermo ai livelli di ieri sera, pur vicino ai massimi di periodo).
Oggi verrà pubblicato il CPI americano, presumibilmente il dato macro più atteso della settimana. Non sembra comunque che possa risultare un market-mover significativo con la Federal Reserve che non pare certo sulle spine per l’attuale evoluzione delle pulsioni inflattive e al momento concentrata su altri temi (crescita e stabilità finanziaria).
Buon fine settimana.
Il desk rimane come sempre a disposizione per ulteriori approfondimenti.
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