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Fondazioni, è ora di cambiare pelle

Pubblicato 30.08.2011, 10:44

La tumultuosa estate dei mercati lascia sul campo molti feriti, ma come tutte le crisi che si rispettino può rappresentare anche una buona lezione per spingere verso riforme e cambiamentiche in tempi normali nessuno, anche per proteggere comodi e consolidati interessi, ha il coraggio di affrontare.

UN NUOVO WELFARE

A prescindere dagli esiti della raffazzonata manovra, una cosa è certa: il nostro sistema di welfare soprattutto sul terreno dei servizi locali è destinato a una cura dimagrante fino a qualche tempo fa inimmaginabile. Ed è una cura che farà stringere la cinghia a chi ha meno soldi e cioè ai principali utenti di quei servizi.

Sono cose fin troppo note, ma le previsioni diventano più fosche se si pensa a un pilastro fondamentale del welfare locale: le fondazioni bancarie. Finora, le risorse messe a disposizione dalle fondazioni per le comunità hanno giocato un importante ruolo integrativo se non sostitutivo. Nell’ultimo rapporto da poco pubblicato dall’associazione di categoria, l’Acri, risulta che nel 2010 gli stanziamenti nel campo dell’assistenza sociale sono aumentati di ben il 24 per cento, la variazione in assoluto più significativa tra tutti i settori di intervento.

GOVERNANCE E TRASPARENZA

Il sistema delle fondazioni è consapevole della situazione e da tempo si chiede come coniugare il radicamento territoriale con lo sviluppo di un welfare incardinato su un virtuoso intreccio tra pubblico e privato, intreccio cruciale per consentire il mantenimento e la sopravvivenza di un livello accettabile di servizi.

Le fondazioni dovranno innanzitutto rivedere i propri sistemi di governance: il contemporaneo aumento dei vincoli finanziari e delle richieste presuppone forti capacità di governo e di selezione dei progetti. Servono dunque strutture più sobrie, slegate da conflitti di interessi, autonome e composte da soggetti non solo professionalmente qualificati, ma anche adeguatamente formati per il lavoro che dovranno svolgere. Paradossalmente, essere membro di un organo di indirizzo o di gestione diventa ora un incarico complesso e delicato come in una società quotata o in una banca e, in periodi di vacche magre come quelli chi ci aspettano, non ci si potrà più permettere improvvisazione, dilettantismo e conflitti di interesse.

Altro aspetto importante è quello dell’accountabilty e cioè la ricerca di indici trasparenti e omogenei per dar conto del proprio operato, facendo vedere non solo quello che si è fatto, ma il rapporto tra ciò che si è programmato e poi realizzato, le procedure di selezione e le ragioni che giustificano le scelte effettuate. anche alla luce di una analisi costi/benefici.

LA CONVENIENZA E I MULINI A VENTO

Sono criteri che è auspicabile facciano parte di quella “Carta delle Fondazioni” che l’Acri sta elaborando in vista del congresso del centenario del 2012, come “timone per gestire al meglio il futuro”. Ma poiché il futuro è anche la volatilità dei mercati e una imprescindibile esigenza di patrimonializzazione degli intermediari partecipati, bisogna affrontare con coraggio e lungimiranza gli evidenti limiti della vocazione “bancaria”.

E, nell’ottica di un soggetto non profit protagonista del welfare di comunità, non è coraggioso andarsi a indebitare per inseguire all’infinito aumenti di capitale, anche perché, ormai la nostra recente storia toglie in materia ogni dubbio, i richiami alle esigenze del “nazionalismo bancario” alla fine si rilevano sempre costosi (e inutili per gli utenti) salassi. Nessuno, ovviamente, pensa che le fondazioni debbano precipitarsi a vendere: in queste condizioni di mercato sarebbe un suicidio, ma proprio queste condizioni impongono la diversificazione degli investimenti e soprattutto una loro diversa modalità di gestione. Che senso ha che ogni fondazione, grande e piccola, si tenga stretto il suo pacchetto di azioni?

Sicuramente ha un senso per gli equilibri di potere interni alle banche, ma questi equilibri sono sempre più instabili, per conservarli bisogna di fatto dissanguarsi (e più avanti si va, peggio sarà) e oltretutto incidono sempre di meno sull’ormai mitico radicamento territoriale. Pensare a iniziative di sistema con forme collettive di gestione delle partecipazioni, attribuite a soggetti specializzati, avrebbe il duplice vantaggio di migliorare la redditività dei patrimoni e separare le fondazioni dalle beghe sempre più complicate delle banche, concentrandosi sulla missione non profit.

Non è affatto una strada facile, sicuramente presuppone l’armonizzazione degli interessi tra le diverse “famiglie” di fondazioni (le grandi, le piccole e le medie) e qualcuno, in passato è successo, potrebbe considerarla il classico esercizio teorico di fine estate. Ma dopo l’estate diventa difficile esattamente il contrario: continuare sulla vecchia strada senza immaginare nuove soluzioni.

Il tema merita senz’altro ulteriori approfondimenti. Se vogliamo brutalmente sintetizzare, tuttavia, la domanda da farsi è questa: a una qualsiasi fondazione bancaria (e agli interessi sociali e politici che le stanno intorno) che miri a rafforzare il suo ruolo nelle comunità locali, conviene ancora “l’intimo intreccio” con la banca, svenandosi per fare la classica battaglia contro i mulini a vento?

Autore: Francesco Vella - LaVoce.info

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