I fatti parlano più delle parole e i recenti colpi mancati nelle linee guida delle banche centrali potrebbero far rimpiangere agli investitori i giorni in cui i banchieri centrali non dicevano niente o nascondevano i loro commenti in modo relativamente velato. Le loro intenzioni diventavano chiare solo quando facevano effettivamente qualcosa.
Proprio come aveva fatto il Presidente della statunitense Federal Reserve, la scorsa settimana il Presidente della Banca centrale europea Mario Draghi e il Governatore della Banca del Giappone Haruhiko Kuroda si sono ritrovati a ritornare sui propri passi in merito alle previsioni precedenti.
“I rischi che circondano la crescita della zona euro sono ora al ribasso”, ha spiegato Draghi in occasione della conferenza stampa seguita al vertice della BCE, “a causa del persistere del clima di incertezza legato a fattori geopolitici ed alla minaccia del protezionismo, delle vulnerabilità dei mercati emergenti e della volatilità dei mercati finanziari”.
In un commento da “costi quel che costi”, ha affermato che il consiglio direttivo “rimane pronto a modificare tutti i suoi strumenti” come necessario, per spingere l’inflazione verso l’obiettivo del 2%.
Draghi ha affermato che i mercati hanno interpretato bene la parte legata ai dati delle linee guida, dimostrando di non aspettarsi più un aumento dei tassi quest’anno ma, piuttosto, non prima del 2020. Il Presidente della BCE ha poi preso atto del fatto che probabilmente sarà il primo capo della banca centrale a non aver effettuato un aumento dei tassi durante gli otto anni del suo mandato, che terminerà a fine ottobre.
I mercati sono sembrati essere d’accordo con Draghi, perché la reazione al fatto che abbia rinunciato all’idea di rischi bilanciati è stata limitata, con l’euro in ripresa dai cali iniziali.
Con gli aumenti dei tassi di interesse ormai esclusi, gli analisti si aspettano che la BCE usi le operazioni mirate di rifinanziamento a più lungo termine (TLTRO) - prestiti diretti alle banche a tassi favorevoli - come strumento per allentare le condizioni monetarie, anziché tornare all’acquisto di bond. Delle TLTRO si è discusso in occasione del vertice della scorsa settimana, ma non sono state prese decisioni in merito, ha affermato Draghi.
La Banca del Giappone ha rispettato le aspettative dei mercati non intervenendo, ma gli analisti sottolineano come la banca centrale sia ben lontana dal suo obiettivo di quantitative easing nonostante continui a parlare degli acquisti da 80 mila miliardi di yen di bond governativi all’anno. Secondo alcuni calcoli, la BoJ sarebbe vicina a comprare solo 20 mila miliardi di yen quest’anno fiscale, che terminerà il 31 marzo, dopo i 38 mila miliardi dell’anno scorso.
La banca centrale ha abbassato le previsioni sull’inflazione core sull’anno allo 0,9% dall’1,4%, allontanandosi ulteriormente dall’obiettivo del 2% e portando avanti il nuovo impegno di un acquisto simbolico di 80 mila miliardi di yen di bond. La revisione al ribasso è stata attribuita al calo dei prezzi del greggio. Il Governatore Kuroda invita a portare pazienza: arriveranno al loro obiettivo del 2% alla fine.
Nel corso della settimana, a Davos, Kuroda ha avvertito che il rallentamento della crescita a lungo termine e l’invecchiamento della popolazione renderanno la vita più difficile non solo alla Banca del Giappone, ma a tutte le banche centrali in generale, in quanto si trovano già vicine al confine inferiore dello zero e non hanno in teoria alcuno spazio di manovra.
Dopo che il Presidente della Fed Powell ha nettamente moderato i suoi toni nell’anno nuovo rispetto ai commenti interventisti seguiti al vertice di politica monetaria di dicembre, gli analisti si aspettano ora che la Fed rallenti gli sforzi di ridurre gli asset accumulati nei suoi anni di quantitative easing e magari finisca con un livello permanente molto più alto di quanto annunciato inizialmente.
Sembra che il mondo non sia ancora pronto per la “normalizzazione” tanto bramata dai banchieri centrali. I policymaker, a giudicare dai commenti di Kuroda a Davos, sono chiaramente preoccupati per la possibilità di una nuova crisi all’orizzonte e avranno mezzi limitati per affrontarla.
Ma è un problema che può aspettare. Piuttosto che lamentarsi per la tendenza degli eventi fastidiosi di presentarsi sulla strada della loro normalizzazione, i policymaker farebbero meglio a concentrarsi sul persistente fallimento dei prezzi a salire e di conseguenza a pensare alla deflazione.
Stephen Moore, consigliere economico del Presidente Donald Trump, ha invitato la Fed - e i banchieri centrali sotto il suo comando - a fare proprio questo in un articolo della scorsa settimana per la CNN. Secondo lui il brusco calo non solo dei prezzi del greggio ma anche di quelli delle materie prime lascia presagire ulteriori ribassi dell’inflazione, dopo la flessione dello 0,1% dell’indice IPC USA a dicembre.
Ad ogni modo, spiega Moore, non ci sono prove di un surriscaldamento dell’economia. Piuttosto, come indicano i commenti di Draghi, sta rallentando. Le banche centrali stanno, in ritardo, mettendo un freno all’inasprimento della politica monetaria, che al momento appare essere stato prematuro. La domanda è se questo sarà sufficiente.