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L’OPEC+ non fa sconti e non avvera i desideri di Biden

Pubblicato 10.08.2022, 09:14
Aggiornato 09.08.2022, 18:20
© Investing.com

Di Geoffrey Smith 

Investing.com – Possiamo tranquillamente dire che il Presidente USA Joe Biden si era fatto grandi idee il mese scorso durante il suo viaggio in Arabia Saudita il mese scorso per chiedere un aumento della produzione di greggio.

L’aumento di 100.000 barili al giorno a partire da settembre, concordato la scorsa settimana dall’OPEC e dai suoi alleati, anche se venisse pienamente implementato (e non lo sarà), rappresenterebbe solo un aumento dello 0,1% dell’offerta mondiale di petrolio, non sufficiente ad apportare variazioni sul mercato mondiale.

Beh, sembra proprio che siano finiti i tempi in cui la visita di un Presidente degli Stati Uniti, con tutto ciò che comporta in termini di approvazione da parte della principale superpotenza mondiale, suscitava la risposta politica desiderata da Washington. A onor del vero, però, ce ne siamo resi conto già quando il leader coreano Kim Jong-Un ha servito a Donald Trump un simile “nothingburger” nel 2018.

Lo stato del discorso politico statunitense è tale che entrambi gli schieramenti vedono il fallimento di queste visite come una prova della loro affermazione che il Paese è andato alle ortiche la guida dei loro avversari. Gettare fango sugli avversari è più facile che spiegare che gli Stati Uniti non possono dettare i prezzi dell’energia a livello mondiale, o spiegare il contributo della propria politica alla situazione attuale.

Negli ultimi due decenni, gli Stati Uniti, per ragioni di politica estera di cui non ci occuperemo in questa sede, hanno deliberatamente paralizzato le industrie petrolifere di Venezuela e Iran. Sotto le sanzioni, la produzione di questi Paesi è diminuita di circa 3,4 milioni di barili al giorno.

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L’invasione dell’Iraq e la guerra civile in Libia poi, non hanno certo sostenuto l’offerta globale, anche se la ripresa dell’Iraq come esportatore di petrolio è stata impressionante, malgrado le condizioni ancora decisamente instabili.

Gli Stati Uniti e gli alleati europei stanno ora provando a usare la stessa tattica con la Russia, il secondo esportatore mondiale dopo l’Arabia Saudita. La tattica non ha ancora funzionato, ma questo non vuol dire che non avrà un effetto simile nel medio termine. La scorsa settimana il ministro dell’Energia Alexander Novak ha dichiarato che, dopo un calo iniziale, la produzione petrolifera russa è ora vicina a quella precedente all’invasione dell’Ucraina. Tuttavia, vista la dipendenza da competenze e attrezzature straniere, sembra possibile un calo a medio termine. Le restrizioni artificiali all’offerta globale sembrano destinate a durare.

In un mondo in cui la domanda è ancora in crescita e continuerà a crescere per alcuni anni, gli effetti di queste azioni politiche sui prezzi mondiali possono essere contenuti finché gli Stati Uniti e i loro alleati, come il Canada, aumenteranno la produzione in misura adeguata.

E non è detto che questo avvenga, almeno per qualche mese ancora. Un tratto comune nella stagione degli utili di questo trimestre, oltre ai profitti inaspettati per chiunque venda petrolio e prodotti petroliferi, è stato il fatto che i fornitori di servizi come Halliburton (NYSE:HAL) e Schlumberger (NYSE:SLB) abbiano dichiarato di non avere il personale o l’attrezzatura per consentire un aumento più rapido della produzione. La produzione statunitense è inferiore di oltre un milione di barili al giorno rispetto al picco del 2019.

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Non è tutta colpa della lobby Green. La pandemia ha evidenziato il fatto che gran parte del boom del petrolio di scisto è stato finanziato con prestiti sconsiderati, che hanno reso il settore incapace di assorbire eventuali flessioni, per non parlare dell’uragano del 2020. Wall Street ha chiesto indietro i suoi soldi molto prima che l’attuale amministrazione e la maggioranza di Capitol Hill mettessero mano sulla politica energetica statunitense.

C’è poi la piccola questione della corruzione e dell’inefficienza totale di altri membri dell’OPEC abbastanza fortunati (o sfortunati?) da ricevere la benedizione di grandi riserve di petrolio. La Nigeria, membro dell’OPEC, ha visto la sua produzione dimezzarsi negli ultimi 15 anni, nonostante l’abbondanza di risorse, poiché il vandalismo cronico e i furti, insieme ai rapimenti e alle estorsioni ai danni dei suoi dipendenti, hanno convinto le major petrolifere internazionali come Shell (LON:RDSa) ed Exxon Mobil (NYSE:XOM) ad investire altrove. All’inizio della settimana la Exxon sembrava aver concluso la vendita dei suoi ultimi asset nigeriani, prima che si presentasse il nuovo ostacolo normativo.

Ogbonnaya Orji, responsabile della Nigerian Extractive Industries Transparency Initiative (NEITI), ha dichiarato a una conferenza all’inizio dell’anno che la Nigeria ha perso 260 milioni di barili di greggio a causa di furti negli ultimi cinque anni, una media di oltre 1,25 milioni di barili al giorno.

Con questo non si vuole scusare l’operato deplorevole della Shell nel Delta del Niger nel corso degli anni, che toccato il fondo negli anni ‘90, con la sua collusione nell’omicidio giudiziario dell’attivista Ken Saro-Wiwa da parte del regime di Abacha.

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Ma per tutti i suoi fallimenti, il mondo deve urgentemente smettere di demonizzare il settore del petrolio e del gas, sia pubblico che privato, e dargli modo di investire e, sì, anche guadagnare un ritorno sugli investimenti, senza i quali le carenze si aggraveranno e l’energia diventerà sempre più un lusso.

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