Lunedì 10 Settembre
I Payrolls, con crescita salariale superiore alle attese, e le esternazioni di Donald Trump, che tengono alta la tensione commerciale con la Cina, sono stati i due principali market movers con cui si è chiusa la settimana. Gli effetti di mercato sono stati un rialzo globale dei rendimenti, qualche ulteriore disagio azionario e un ritorno di forza per il dollaro mentre i mercati emergenti hanno confermato quella miglior capacità di resistenza alle notizie negative che si era già segnalata nella sessione di giovedì.
Non-Farm Payrolls. Un significativo aumento dei ritmi di crescita salariale (2.9% y/y vs 2.7% exp.) e una creazione di posti di lavoro superiore alle attese (marginale se mettiamo insieme anche la revisione al ribasso delle rilevazione dei mesi precedenti) in un mese (Agosto) conosciuto per fornire dati occupazionali frequentemente inferiori alle attese, sono stati i fattori principali che venerdì hanno spinto ad un rialzo generalizzato i rendimenti globali. L’effetto è stato ovviamente più diretto sulla curva US dove il 10Y è salito di 6bp a 2.94%, con il Treasury 5Y (+8bp) particolarmente sotto pressione. Oltre al rialzo garantito di settembre la curva conta ora circa 70% di probabilità che i tassi salgano di altri 25bp nel FOMC di dicembre mentre se estendiamo l’orizzonte temporale a fine 2019, il gradualismo invariabilmente ostentato della Fed si traduce complessivamente in 3 rialzi abbondanti (includendo quello in arrivo nelle prossime settimane).
Trump. Quando ormai l’Europa stava chiudendo i battenti per il week-end è arrivata la consueta headline aggressiva. Mentre ancora aspettiamo (dovrebbe essere questione di giorni) l’ufficializzazione delle tariffe pensate su altri 200 bio USD di importazioni cinesi, su cui l’amministrazione lavora da luglio, il Presidente ha voluto rassicurarci (!) su come stia già ragionando su dazi da imporre su altri 267 bio, praticamente garantendo (basta sommare 50+200+267 e confrontarlo con l’identico totale delle importazioni che gli Stati Uniti hanno effettuato da Pechino nel 2017) che tutto quello che, in provenienza dalla Cina, cercherà di passare una dogana americana, verrà sottoposto a tassazione. Il mercato ha reagito con qualche vendita di azionario, acquisti di yen e vendite di valute high-beta, tipicamente legate al commercio globale (AUD per esempio), evitando comprensibilmente eccessi, da un lato vaccinato alle intemperanze verbali provenienti dalla Casa Bianca, dall’altro consapevole che il livello dello scontro con la Cina rimane assai elevato e che, almeno sul fronte del protezionismo commerciale, quando Trump ‘fuma’ l’arrosto alla fine arriva, o almeno è stato così finora.
Per l’azionario quella lasciata alle spalle è stata una settimana di flessione, ben più visibile in Europa, dove l’Euro Stoxx 50 ha perso il 3%, che negli Stati Uniti (S&P 500 -1%). Quella che è apparsa evidente un po’ ovunque (US, Europa, Asia) è stata comunque la sotto-performance dei settori e delle strategie che così a lungo sono stati vincenti. Tecnologia e, tra i ‘fattori’ classici di investimento, Growth e Momentum, sono stati alleggeriti pesantemente e in maniera continua in molte sessioni di settimana scorsa. Il settore tecnologico in particolare è stato il principale freno di Wall Street (l’S&P 500, con contribuzioni positive dagli Industrials e Stapes, avrebbe messo a segno ritorni settimanali marginalmente positivi, +0.15%, senza la zavorra tech) con i riflettori nuovamente puntati, con le audizioni al Senato, sul rischio regolamentare potenzialmente in agguato per i giganti della tecnologia. Facebook (NASDAQ:FB) (-8%) e Twitter (-13%) sono risultati i nomi più colpiti dalle vendite. In Europa il rimbalzo dei ‘perdenti’ è stato visibile nel settore bancario.
Emergenti: segnali di stabilizzazione. Sull’azionario non è stata una settimana semplice neanche per i mercati in via di sviluppo. L’ETF i-Shares che traccia l’indice MSCI EM (ticker Bloomberg EEM) ha perso più del 3%, chiudendo vicino ai minimi di ferragosto, quando eravamo nella fase acuta della tempesta turca. Quello che è però emerso nelle ultime sessioni è stata una maggiore resilienza dell’asset class, soprattutto per quanto riguarda le ‘local currency’, nel resistere a notizie negative e destabilizzanti che fino a poco tempo fa avrebbero significato un immediato contagio e conseguente panico nella price-action. Tra giovedì e venerdì ha preso ancora più corpo una correzione sul tecnologico US, sono arrivate forti vendite sugli asset russi, la rilevazione della crescita salariale US ha innescato una salita dei rendimenti globali e Trump ha ulteriormente alzato i toni sul protezionismo commerciale. In particolare la price-action di venerdì, azionario più basso, rendimenti più alti, dollaro più forte, ha portato un mix generalmente molto fastidioso per i mercati emergenti. Che stavolta hanno resistito con un piglio diverso rispetto a quanto eravamo stati abituati a vedere nelle ultime settimane. Ci sarà da tenere gli occhi aperti nei prossimi giorni per cercare di interpretare se questo sia un fenomeno di breve durata, dovuto a un posizionamento speculativo (bearish EM) che aveva fatto raggiungere all’asset class livelli di iper-venduto insostenibili nel breve, oppure se in esso ci siano semi più duraturi di una qualche capacità di rimbalzo nei prossimi mesi.
Elezioni in Svezia. L’appuntamento con le urne di ieri conferma una situazione di stallo ampiamente attesa che necessiterà di settimane di negoziazioni per arrivare alla formazione di un governo, senza peraltro escludere la necessità di un ricorso a nuove elezioni se le trattative non fornissero una soluzione accettabile. In un parlamento che conta 349 deputati, la coalizione ‘rosso-verde’ guidata dall’uscente Primo Ministro social-democrartico Lofven porta a casa 144 seggi (40.7% dei voti). L’opposizione formata dalla coalizione centro destra ottiene praticamente lo stesso risultato (143, 40.3%). L’ago della bilancia, si sapeva, sarà il partito di destra radicale Democrazia Svedese con 62 seggi. Quest’ultima formazione, che ricopre un ruolo ormai consueto nell’Europa contemporanea nel focalizzarsi su una proposta politica centrata su nazionalismo e anti-immigrazione (che ha ovviamente guadagnato consensi in un paese di 10 milioni di abitanti che ha dovuto accogliere circa 600.000 immigrati negli ultimi 5 anni), ha portato a casa circa il 18% dei voti con una crescita importante rispetto alle elezioni di 5 anni fa, rimanendo però al di sotto dei livelli che qualcuno si aspettava/temeva (oltre il 20%). Il giovane leader (39 anni) Akesson è disposto a collaborare con entrambi i poli per formare un governo ma troverà certamente la porta chiusa a sinistra. Un governo con il centro-destra (che in campagna elettorale ha sempre preso le distanze) è forse possibile ma non potrà essere formato negoziando da una posizione di forza dal momento che l’ascesa di Democrazia Svedese è stata comunque contenuta a terzo partito dopo i Social-democratici (28%) e i Moderati (principale partito del centro-destra al 19%). La situazione politica presenta quindi una scarsa governabilità, ma questo era già dato per scontato prima del voto. La notizia positiva è che le forze di radicalizzazione presenti nella società non sembrano esplosive come da molti temuto. La corona svedese in agosto si era indebolita non solo per queste preoccupazioni ma anche per l’eterna dovishness di una banca centrale che deve costantemente fare i conti con spinte inflattive da anni inferiori alle previsioni. In ogni caso sembra che questo risultato politico possa favorire la continuazione del recupero che la SEK aveva già impostato nell’ultima settimana abbondante.
La sessione asiatica di apertura settimanale non ha portato novità importanti a livello di flusso di notizie. La rilevazione del CPI (e il PPI) cinese è stata leggermente superiore alle attese. La seconda lettura del GDP giapponese (Q2) ha confermato e irrobustito il dato già buono uscito in precedenza. La borsa cinese non ha ovviamente avuto una buona partenza (Shanghai Comp -0.7%, Hang Seng -1.1%) dovendo digerire le dichiarazione bellicose rese da Trump venerdì. Poco mosse le valute con il dollaro che ha consolidato i guadagni innescati prima del week-end a valle della pubblicazione dei dati occupazionali US.
La settimana entrante avrà la sua giornata clou giovedì con le riunioni della Bank of England, della ECB e il CPI americano. L’agenda macro è arricchita venerdì dalle vendite al dettaglio statunitensi. Per il resto le evoluzioni da Washington (protezionismo commerciale, azioni del procuratore speciale Mueller, mal di pancia assortiti della Casa Bianca) rimarranno centrali nella price-action di mercato. Come ovviamente saranno da monitorare gli sviluppi idiosincratici in molti paesi emergenti (spicca probabilmente giovedì la riunione della banca centrale turca). In Italia, in attesa della presentazione del documento triennale di programmazione finanziaria per cui ci vorranno ancora un paio di settimane, non mi aspetto una volatilità politica particolarmente elevata. Buona settimana.
Alessandro Balsotti, Strategist e Gestore del JCI FX Macro Fund
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