Sul finire del 2021, prima che le ipotesi di un conflitto da tutti ritenuto improbabile si rivelassero fondate, c’erano alcune certezze che vedevano un accordo abbastanza unanime tra gli addetti ai lavori: la fine delle politiche monetarie accomodanti delle banche centrali e lo sguardo rivolto verso la cara e “vecchia” Europa.
Sembrava evidente, infatti, che la stagione apertasi con i sostegni post Covid fosse agli sgoccioli ed infatti l’annuncio della FED, poi seguito dalla BCE, sull’aumento dei tassi è arrivato puntuale.
Gli investitori, dal canto loro, avevano iniziato a prezzare già tutto questo e ciò è testimoniato dalla rotazione iniziata già a metà del 2021 quando i flussi hanno cominciato a spostarsi verso titoli value e large cap, mandando in territorio negativo le aziende growth.
A subire questa ondata sono stati soprattutto i “vincitori” della “covid-economy” che avevano beneficiato della corsa al digitale e della crescita enorme del peso: tutto questo, nel quasi silenzio dei media generalisti, ha portato piogge di vendite per alleggerire e minore entusiasmo sul fronte acquisti.
Per maggiori informazioni al riguardo, chiedere a Zoom, PayPal (NASDAQ:PYPL), Robin Hood e compagnia e, a vario titolo, ognuno darà una versione di quella che può essere considerata la seconda fase del 2021.
Se a ciò aggiungiamo le tensioni geopolitiche con la Cina che hanno portato giù anche i principali colossi della Terra del Dragone, le alternative sul tavolo non erano poi così tante.
Proprio per queste motivazioni, dunque, i principali asset manager verso la fine dello scorso anno prevedevano un 2022 caratterizzato dall’atteso aumento dei tassi, dall’inflazione e dalla corsa verso settori che offrissero maggiori garanzie quali le azioni value.
E quale Continente migliore della cara e vecchia Europa poteva dare garanzie così solide? Da noi non è mai nata la Silicon Valley, tanto innovativa quanto bisognosa di capitali per produrre nuovi milionari, e per queste ragioni si prevedeva un anno all’insegna del Vecchio Continente, intrinsecamente legato a “business sicuri” e meno volatili.
Poi, però, abbiamo scoperto che Putin faceva sul serio e, nonostante i tentativi negoziali più o meno seri, la federazione russa ha veramente iniziato a bombardare l’Ucraina aprendo una crisi destinata a rimanere nei libri di storia.
La reazione, nonostante giorni di sostanziale attendismo o di speranze, non si è fatta attendere sui principali listini europei.
Da inizio anno (giorno di riferimento 4 marzo) l’indice Stoxx Europe 600 ha lasciato sul piatto il 13,92% mentre l’Euro Stoxx 50 tocca il -17,91% avvicinandosi al bear market.
Gli indici nazionali, ovviamente, ricalcano quanto accade da quelli continentali: Dax 30 -18,27%, Cac 40 -16,01%, FTSE MIB -18,99%.
Per dare un’idea che potesse connettere la realtà alla previsione di fine 2021, da inizio anno l’indice S&P500 ha perso “solo” il 9,75% ed il Nasdaq 100 arriva al 16,14%.
In pratica, se ci fermassimo ai numeri e senza leggere i fatti di cronaca, l’Europa sta perdendo quanto il Nasdaq 100 dalla cui ipotetica discesa ci dovevamo “proteggere”.
Sul Vecchio Continente pesano la prossimità della guerra e le ingenti sanzioni annunciate dalla Comunità Internazionale alla Russia che fanno temere “ritorsioni” da Mosca circa la fornitura di gas e petrolio, indispensabili per l’industria ed i consumi europei.
Si può dire che Putin, con il suo attivismo militare, abbia per adesso rovesciato le carte che erano state apparecchiate sul tavolo degli analisti e, per il momento, ci si deve aprire ad interrogativi che ovviamente vanno anche oltre il mero ambito finanziario.
Che fare?
Posto che è sempre difficile dare consigli generali ed astratti validi per tutti, in una fase come quella attuale l’attesa è d’obbligo: il quadro descritto non è cambiato, è “solo” peggiorato.
Tutto quello che era valido a fine 2021 lo è ancora, purtroppo c’è “solo” una guerra in più a rendere ancora più complesso l’immediato futuro.
La soluzione diplomatica al conflitto, oltre a risparmiare migliaia di vite umane, con ogni probabilità sarà il compromesso necessario anche per attutire le conseguenze del probabile tracollo dell’economia russa e per dare un minimo di certezze in più all’Europa partendo proprio dal costo delle materie prime che, senza una maggiore stabilità, è destinato a rimanere l’ostacolo più grande alla ripresa post pandemica.
Ripresa essenziale, a sua volta, per “mitigare” l’inflazione. Lo scenario negativo, nelle stanze dei bottoni di Bruxelles, si chiama “deflazione” e non conviene a nessuno.