Giovedì 11 Ottobre
Il mercato, a 8 mesi di distanza, sta un’altra volta ‘impazzendo’ con movimenti improvvisi e una volatilità impulsiva che non concede segnali preventivi di allerta. Per Donald Trump, che si è portato avanti nei mesi scorsi nel plasmare la sua posizione critica nei confronti della Fed, è poi abbastanza naturale additare la presunta aggressività della banca centrale (“I think the Fed has gone crazy”), come la causa della rottura del suo principale alleato elettorale, insieme a un economia in robusta espansione, ovvero mercati azionari in costante salita. Ne consegue una minore efficienza del dollaro come valuta rifugio. Quello che preoccupa di più è che la correzione non sembra avere una chiara paternità ed è quindi più difficile da razionalizzare ed affrontare.
Bollettino di guerra. Come a febbraio iniziamo dalla crudezza dei dati di fatto.
L’S&P 500 ha ceduto il -3.3% (l’indice cash alla chiusura di ieri sera, il future è ora quasi 1% più basso) a 2785. L’indice è sceso sotto la media a 100 giorni, il future è ora poco sotto anche la media 200 che aveva già violato a inizio maggio.
Il Nasdaq ha lasciato sul campo 4.1% at 7422.05 (più ingenti a -4.9% le perdite del Nasdaq 100 index). L’indice è sceso, con margine, sotto la media 200 giorni, per la prima volta dal luglio 2016 (dopo il referendum che ha decretato la Brexit). Anche in questo caso il future sta lavorando livelli di circa 1% più bassi rispetto alla chiusura di ieri.
L’indice di riferimento per le small-mid cap americane (Russell 2000) ha chiuso anch’esso significativamente sotto la media a 200 giorni, toccando i livelli più bassi da maggio.
Il VIX è salito di 7 punti (la seconda salita in ordine di grandezza del 2018, da 16 a 23) ai livelli più alti da aprile.
Lo spread misurato dall’indice CDX 5Y, punto di riferimento del mercato High-Yield, ha allargato di 18.5bp a 361.5bp. L’ultima rilevazione settimanale aveva mostrato i deflussi più copiosi dagli ETF dedicati a questa asset class da febbraio.
Gli altri mercati azionari. Le piazze globali non hanno mostrato particolare capacità di differenziarsi con una maggiore resilienza. Nel caso dell’Europa la sovra-performance rispetto all’epicentro statunitense appare per ora marginale. Il Vecchio Continente ha chiuso i battenti ben prima che iniziasse la parte più severa del ribasso a Wall Street. Quindi il -1.65% dell’Euro Stoxx 50 di ieri andrà contestualizzato con l’ulteriore gap ribassista in arrivo all’apertura odierna. Il future ha chiuso ieri sera un 1% abbondante sotto la chiusura pomeridiana. In Asia, dove nelle ultime settimane i venditori non si sono quasi mai tirati indietro (con l’eccezione del Giappone), le perdite notturne sono al momento di magnitudo simile a quelle US: Nikkei -3.9%, Hang Seng -3.8%, Shanghai Comp -4.9%.
Il dollaro ha zoppicato come valuta rifugio. Era presumibile lo facesse nei confronti di valute capaci di avere un appeal superiore in casi di risk-off così conclamato come JPY e CHF, come in effetti è avvenuto, ma ha sofferto anche contro EUR e GBP. I commenti di Trump hanno sicuramente avuto un ruolo in questa dinamica e anche la performance del biglietto verde nei confronti di valute high-beta (monete emergenti, AUD, NZD) è stata nella maggior parte dei casi poco convincente e la volatilità in questo caso assai contenuta, soprattutto rispetto agli estremi agosto.
Trump. Senza bisogno di commentare in dettaglio riporto un paio di dichiarazioni a valle del movimento a Wall Street: “The Fed is making a mistake"/"I think the Fed has gone crazy."/"Actually, it's a correction that we've been waiting for, for a long time. But I really disagree with what the Fed is doing, OK?".
Curva US. Se il bear steepening della curva dei tassi US delle ultime due settimane era stata in qualche modo l’innesco e la principale causa dei moderati disagi azionari di ottobre, il crollo di ieri ha assunto vita propria invertendo anzi la relazione di causa effetto con l’avversione al rischio che ha calmierato la curva. Il rendimento del Treasury a 10Y è sceso di 6bp a 2.15%, allontanandosi ulteriormente dai massimi (2.25%) di martedì mattina.
Catalizzatori evidenti di questa debacle, o perlomeno del suo innesco, sono difficili da trovare. Se vogliamo fare un paragone con febbraio, anche allora uno strappo rialzista dei rendimenti nelle settimane precedenti è probabile avesse preparato il terreno per la violenta correzione, il cui megafono era stato la tempesta sulle popolari strategie corte volatilità. Il mercato negli ultimi anni, anche se non è più ferocemente corto VIX come a gennaio, è diventato strutturalmente sempre più corto-gamma, con sempre più asset gestiti passivamente e sistematicamente. Quindi movimenti come quelli di ieri non possono mai sorprendere del tutto. Aggiungo, come ho fatto svariate volte ultimamente, che questa fase che ci porta verso il kick-off della stagione delle trimestrali è quella di maggiore vulnerabilità per il diminuito supporto dei buy-back (un flusso che negli ultimi anni è diventato un carburante sempre più importante dei rialzi) dovuto all’embargo che le società devono rispettare prima della pubblicazione dei risultati. Vi ripropongo sotto un grafico già postato una decina di giorni fa.
Due motivi che mi fanno rimanere abbastanza pessimista almeno per il breve periodo (che in in questi casi può diventare anche le prossime 24-48 ore):
Il movimento di ieri non sembra avere una paternità conclamata. Appare più una confluenza di fattori tecnici, fondamentali, economici e politici in una fase matura del ciclo. In questi casi è solitamente più difficile per chi è rialzista scrollare le spalle e tornare a comperare avendo identificato (ed eventualmente razionalmente declassato) la causa della correzione.
I settori che hanno fatto da traino al bull market degli ultimi trimestri (tech e small-cap) sembrano in maggiore difficolta, a differenza di febbraio dove erano rimasti lontano dai più seguiti livelli di supporto (media mobile a 200 giorni e varie trendline)
Oggi verrà pubblicato il CPI US, il dato macro più atteso della settimana, ma la rilevazione rischia di essere secondaria rispetto alla semplice price action a Wall Street. In genere quando il catalizzatore è l’azionario US, gli altri mercati tendono a seguire in maniera abbastanza passiva. Per cui sarà solo nel pomeriggio che potremo provare a farci un’idea se la discesa diventerà ancora più cattiva o se abbia possibilità di stabilizzarsi/invertirsi. Un CPI alto dovrebbe risultare comunque più pericoloso per gli asset rischiosi, dal momento che l’aggressività della Fed (e il potenziale conflitto istituzionale con la Casa Bianca) è uno dei nervi scoperti in questa fase di mercato. Buona giornata.
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